domenica 17 agosto 2014

QUEL FOGLIETTO DELLA MERKEL CHE DICE CHI SIAMO NOI EUROPEI


Non avevo letto questo articolo di Danilo Taino, del Corriere, pubblicato all'indomani dei dati Eurostat relativi all'andamento dei PIL europei, e che hanno rivelato la clamorosa flessione della locomotiva tedesca (che poi, visto che non importano, locomotiva lo è assai poco) e la stagnazione ormai persistente di quella francese. MI è capitato sotto gli occhi oggi e l'ho trovato molto interessante e per questo lo propongo in questa sorta di selezione stampa che il blog è diventato nel tempo.
In particolare mi ha colpito il foglietto della Merkel che conserva appuntati tre dati in effetti molto significativi : gli europei rappresentano il 7% della popolazione mondilae (pochini no ? ) , il 25% del PIL e il 50% (!!!) del welfare sociale.
A me queste cifre qualcosa suggeriscono...

I dati dell’eurosclerosi: il 7% della popolazione “brucia” 50% del welfare

Corrono solo le economie dei Paesi emergenti e degli Stati Uniti. Anche la Germania, che ha un’economia forte, competitiva ma che non si può definire dinamica

di Danilo Taino

Da anni, Angela Merkel tiene in tasca un foglietto con tre statistiche che cita in continuazione. Le permettono di inquadrare la posizione dell’Europa nel mondo: il continente ha il 7% della popolazione, il 25% del Prodotto lordo, il 50% delle spese per Welfare State. Ieri, forse, la cancelliera ha dato un’altra occhiata ai tre numeri, quando ha saputo che nel secondo trimestre dell’anno l’economia dell’Eurozona è tornata a essere stagnante. A differenza di altre volte, però, le conseguenze dovrà almeno in parte trarle non solo per i partner europei ma per la stessa Germania, il cui Pil si è ristretto dello 0,2%. È che, dal 2008 e ancora di più dal 2010, l’Europa ha vissuto nell’emergenza, è passata da interventi di salvataggio a nuovi vincoli di bilancio senza soluzione di continuità, con l’obiettivo di non fare crollare la moneta unica. Inevitabile: ma i vecchi mali di cui si discuteva prima, la famosa eurosclerosi, sono scivolati in secondo o in terzo piano. Restano però ancora lì: in buona parte anche in Germania, che è un’economia forte, competitiva ma che non si può definire dinamica e sicura del futuro in tutti i settori. Il dato di fatto è che quella del Vecchio Continente è oggi l’unica importante economia del pianeta (forse assieme a quella giapponese) a non crescere: immagine di un’area in perdita continua di peso di fronte alla potente e dinamica economia americana e a quelle emergenti.
La fotografia della stagnazione resa pubblica ieri da Eurostat ha già fatto dire a molti che alla sua origine ci sono le politiche di austerità volute da Berlino e Bruxelles negli anni della crisi. Ma, dal momento che molto difficilmente il «Fiscal Compact» europeo sarà rimesso in discussione, è forse meglio focalizzare l’attenzione proprio sull’eurosclerosi persistente, sulla storia raccontata dalle tre percentuali di Frau Merkel. La situazione si può riassumere così: la popolazione europea tende ad avere un peso sempre minore rispetto a quella mondiale perché gli europei fanno decisamente pochi figli (Germania e Italia sono i casi più acuti); la stagnazione farà diminuire, dal 25% di oggi, anche la quota di Pil prodotto; e, chiaramente, la generosità inefficiente del Welfare State europeo (il 50% delle spese mondiali per il 7% della popolazione) non può essere sostenuta ed è un elemento che pesa sulla competitività (i Paesi emergenti tendono ad aumentare la spesa per la sicurezza sociale, ma non illudiamoci che lo facciano a scapito della loro capacità concorrenziale). Un circolo vizioso. Nel 2000, Bruxelles lanciò l’Agenda di Lisbona: interventi per fare della Ue «l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» entro il 2010. Un fallimento. Ora la questione si ripropone in termini probabilmente meno ambiziosi ma più urgenti. Cosa si tratta di fare è noto.
L’Ocse ha elaborato riforme finalizzate a migliorare la competitività di ogni Paese. E, fatto interessante, l’Europa ha in casa i modelli di riforma più di successo, quelli applicati dai Paesi nordici che nei decenni scorsi sono usciti da una profonda apatia. Con scelte coraggiose che hanno abbassato le tasse e ridotto la spesa pubblica senza massacrare, anzi spesso migliorandola, la politica sociale. La Svezia, per dire, nel 1993 aveva una spesa pubblica pari al 67% del Pil: da allora l’ha ridotta di quasi venti punti ma mantiene un sistema di protezione elevato perché ha fatto riforme serie, per esempio nell’istruzione ha introdotto il sistema dei voucher universali che ha messo in concorrenza scuole pubbliche e private. La flexsecurity del mercato del lavoro danese è diventata un esempio. Non che i Nordici siano necessariamente modelli esportabili: dicono però che le riforme strutturali si possono fare. Vale anche per la Germania.
Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi ha differenziato le difficoltà di crescita tedesche, «tecniche» dovute per esempio alla crisi in Ucraina, da quelle «strutturali» di Italia e Francia. Ed è vero che Berlino ha riformato il mercato del lavoro e ha una struttura dei salari che si adatta bene al ciclo economico. È però anche vero che ha un settore dei servizi ancora fortemente regolato, dagli orari dei negozi alle professioni. E che il governo di Grosse Koalition sta rimangiandosi alcune riforme, ad esempio con l’abbassamento (parziale) dell’età pensionabile. I tre numeri del foglietto di Frau Merkel, invece, dicono che, per prosperare, oggi occorre essere dinamici, flessibili, capaci di creare quella fiducia nel futuro senza la quale la gente fa pochi figli e si accontenta di un Welfare State che sarà sempre più difficile finanziare. Altrimenti è la vecchia eurosclerosi, che ieri si è ripresentata con la faccia della stagnazione, senza risparmiare nessuno.

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