Lanfranco Caminiti è una delle firme de Il Garantista, e si occupa di Cultura. E' uno scrittore di cui non ho letto nulla e nemmeno leggerò, vista la sua predilezione per gli anni '70, il Movimento del '77, l'Autonomia Operaia. Pur avendo vissuto in quel periodo l'adolescenza e la prima giovinezza - periodi belli, anzi, gli anni del liceo sono stati quelli felici della mia vita - storicamente non ho un giudizio positivo di quel decennio. Non penso, come titolò il suo libro Mario Capanna, che furono "anni formidabili". Caminiti invece sì, e lo ribadisce nella chiosa del suo articolo, dedicato peraltro a tutt'altro : la ricorrenza dei 40 anni dall'incontro storico tra Alì e Foreman a Kinshasa, con la riconquista del titolo mondiale da parte di quello che è stato sicuramente il pugile più famoso e prestigioso nella storia della boxe. Rino Tommasi ci ha scritto un libro, e da esperto ed appassionato di boxe non esita a definire Mouhmed Alì, nato Cassius Clay, come il pugile e l'atleta più prestigioso al mondo. Non tanto per la sua bravura sul ring - e lo fu, bravo, inventando una boxe unica per la sua categoria, quella dei pesi massimi, dove la potenza e la cattiveria sembravano essere l'unica cosa che contasse - quanto per il carisma, il suo non restare nei soli confini dello sport, il suo suscitare ammirazione trasversale. Ci sono stati pugili più forti, che hanno vinto di più, anche più tecnici (Tommasi cita Sugar Ray Robinson come il suo preferito assoluto in questo senso) , ma nessuno ha avuto la fama planetaria di Alì.
Pubblico l'articolo di Caminiti perché lo trovo bello. Dell'uomo non condivido la fede politica, ma ha passione nello scrivere, e uno stile che mi piace.
Magari anche a voi.
Quel giorno in Africa Alì diventò Re
«Ali bomaye!», Ali uccidilo, gridava la folla allo stadio Tata di Kinshasa, Zaire, oggi Congo. Erano tutti con lui, con l’ex Cassius Marcellus Clay junior, ora Muhammad Ali da quando si era convertito all’islam. Era il simbolo della ribellione contro l’uomo bianco, nel 1967 si era rifiutato di andare a sparare in Vietnam.
– «Non ho niente contro i vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro» -, aveva fatto il carcere per questo, gli avevano ritirato la licenza per salire sul ring e combattere. Era il simbolo del riscatto, dell’orgoglio, della lotta per i diritti civili. Lo amavano, lo amavamo come amavamo Smith e Carlos, i due velocisti neri che nel 1968 sul podio avevano chinato la testa e alzato il pugno chiuso dentro un guanto nero in una Città del Messico insanguinata dalla repressione militare.
Dopo tre anni e mezzo, Ali ci aveva riprovato a combattere, ma era stato sconfitto da Frazier, nel 1971. Non è facile smettere di salire sul ring e poi tornare come nulla fosse. L’altro però, Foreman, era nero pure lui. Era uno zio Tom però, uno contento di essere negro, almeno così lo percepiva la gente. Non gliene fregava niente del Vietnam, dei fratelli neri, della schiavitù. Non gliene fregava niente di niente a Foreman. Contento di salire sul ring e pestare tutti per incassare i soldi dell’uomo bianco. Era forte Foreman, forse uno dei più forti pugili saliti sul ring. Ali sarà stato pure capace di “volare come una farfalla e pungere come un’ape”, era agile di gambe e velocissimo, ma i cazzotti di Foreman erano colpi di maglio. Era giovane Foreman, più giovane di Ali. E poi era il campione del mondo. E aveva battuto Frazier che aveva battuto Ali, e aveva battuto Norton che aveva rotto la mascella a Ali, e due più due fanno quattro, non doveva esserci partita: i bookmaker lo davano favorito tre volte tanto, cioè se puntavi tre dollari ne prendevi solo uno.
Ali saliva sul ring per riprendersi la sua corona, la corona di re dei pesi massimi, ma c’era riuscito soltanto uno prima di lui, Floyd Patterson, una leggenda. Però Ali era un re. Lo sarebbe stato comunque. Ali era il riscatto di tutti i neri del mondo, di tutti gli schiavi, di tutti i ribelli. Ali era il re di tutti loro. E due più due non fanno sempre quattro. «Ali bomaye!», Ali uccidilo. Avevano denominato l’incontro Rumble in the jungle, il Rimbombo, il Tuono nella giungla. Era stato Don King, il Manager Pazzo, a volere quel nome. Un nero pure lui. Due neri che si battono come forsennati nel mezzo dell’Africa.
I tam tam che suonano e rimbombano e richiamano da una parte all’altra del mondo. Aveva convinto Mobutu Sese a ospitare l’incontro. Il presidente Mobutu. Il dittatore Mobutu. Aveva le mani sporche di sangue Mobutu, aveva ucciso Lumumba e con lui un sogno democratico di riscatto dal colonialismo. Era un anticomunista feroce, Mobutu, e per questo lo sostenevano gli americani, che erano pronti a sostenere qualunque assassino seriale, qualunque dittatore purché uccidesse i rossi in massa. Don King lo convinse che gli avrebbe ripulito un po’ la faccia: tenere il campionato del mondo dei pesi massimi in Africa, nella giungla, nello Zaire. Tutto il mondo lo avrebbe guardato, tutto il mondo ne avrebbe parlato.
Chi avrebbe più pensato ai fiumi di sangue dei comunisti. Viva Mobutu. Era un genio Don King. Era un pazzo Don King. Promise a Ali e a Foreman due borse distinte, non una divisione degli incassi, una cosa che non avrebbe mai potuto permettersi, mica li aveva quei soldi. Però il fiuto del grande comunicatore, lo aveva. I soldi sarebbero arrivati: quello era the Rumble in the Jungle. Avrebbero scommesso tutti, i neri e i bianchi, i cinesi e gli ispanici, i dopati della scommessa e quelli che lo facevano per la prima volta, gli occasionali e i seriali, i mafiosi, quelli, oh sì, avrebbero scommesso.
Come la volta prima, quando Ali aveva mandato giù al tappeto Liston quasi senza averlo colpito. Avevano guadagnato milioni di dollari, allora, i mafiosi, perché nessuno avrebbe messo un cent su Ali, Liston era forte, troppo forte. Solo che era mafioso, troppo mafioso. E andò giù alla prima ripresa. Stavolta, i mafiosi cosa avrebbero fatto? Don King era venuto in Africa, così non li aveva tra le palle. Ehi, paisà, qui siamo nella giungla, li senti i tam tam? Un genio. Così, se li era portati, i due neri, laggiù nella giungla, in mezzo ai tam tam. Estate 1974. A allenarsi lì nel gran caldo tropicale. Rompetevi il culo, fratelli neri, vi ho preparato un menu che nemmeno ve lo sognate.
L’incontro doveva tenersi a settembre, ma Foreman si fece un po’ male durante gli allenamenti e slittò a ottobre. Il 30 ottobre. C’era tutto il mondo del cinema a bordo ring, e c’erano stelline e attricette e la solita corte di nullafacenti che va in giro dietro quelli che hanno soldi e fama ogni volta che si presenta un film o c’è un party. Solo che non eravamo a Los Angeles, non eravamo a New York, non eravamo a Chicago. Eravamo a Kinshasa, Zaire, Africa, nel buco del culo del mondo. E tutto il mondo era collegato in televisione. Erano le quattro del mattino a Kinshasa. Si può combattere alle quattro del mattino? Sì, se serve perché in America ti vedano a un’ora decente. Ha inventato tutta la televisione sportiva che sarebbe venuta dopo Don King, l’ha inventata quella sera del 30 ottobre 1974.
I soldi arrivarono, a palate. Lo stadio è in delirio. Ali bomaye, Ali uccidilo. Starà lì dal giorno prima, o forse dal mese prima tutta quella gente. Staranno mangiando e dormendo e cacando e scopando lì da settembre, da quando doveva svolgersi l’incontro prima che slittasse. Mica sono star del cinema loro. Sono africani. Sono negri. Come i due che si battono.
Ali parte all’attacco alla prima ripresa. Angelo Dundee, il suo allenatore, lo guarda stupefatto, che cazzo sta facendo? Non è il suo stile. Ali balla e zompetta e ti gira intorno e ti ubriaca di chiacchiere, ma non parte all’attacco, non ha un pugno potente. Pure Foreman è sorpreso. Ci mette poco però a prendere le misure. Alla seconda ripresa Foreman comincia a darci dentro. Ali prima schiva, poi non scappa. Finta, scarta, evita, quando può. Altrimenti incassa. Si appoggia alle corde. Se ti appoggi alle corde e le corde sono morbide, quando prendi i colpi è come se venissero attutiti, è come se il tuo corpo fosse elastico. Ali cerca di stringere Foreman quando è a centro ring, prova a colpirlo alla testa. Riesce anche a dargli dei colpi, non sono forti, certo, non sono come quelli di Foreman, ma sono precisi e sono tanti, tanti. Ali è veloce. Neanche li vedi arrivare i colpi. Non è lui quello del colpo fantasma, quello che stese Sonny Liston e che nessuno vide?
Dopo qualche ripresa si vede che Foreman comincia a accusare la fatica. Fa un caldo d’inferno, nello stadio Tata di Kinshasa e quei due lassù staranno faticando come bestie. Foreman di più perché è la sua tattica quella di darci dentro. Ali di meno. Aveva detto a Dundee che aveva un “piano segreto”. Finora s’era visto solo che prendeva colpi. Però incassava bene Ali, e questo non se l’aspettava nessuno. Al sesto round, Ali cominciò a sfotterlo. Ehi, negro, m’hanno detto che sai fare a pugni. Foreman ci provava ancora e ancora. Ma quello incassava. E colpiva. Foreman aveva il volto pesto. Ali gli gridava contro. Ehi, negro, dicevano che hai il pugno di Joe Louis, ma qui non si vede niente. All’ottava, con un gancio lo sollevò e con un diretto al volto lo stese lungo di schiena. Unodue, sinistro sinistro, una cosa che non si vede mai. Forse non era il pugno più forte del mondo, ma dovette arrivare come un treno in corsa. Era vero, aveva un piano, Ali.
La folla impazzì, Ali bomaye, Ali uccidilo. Il mondo impazzì, eccolo, il re dei re. Ali bomaye. L’arbitro contò, Foreman provò a rialzarsi, era rintronato. È stato tra gli eventi sportivi più importanti del secolo. È stato tra gli eventi televisivi più importanti della storia della televisione. È stato l’evento sportivo più importante mai fatto in Africa. Il film che ne è stato tratto è stato il documentario sportivo che ha vinto di più. Erano gli anni Settanta, ragazzi. Altra roba.
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