Riflessioni non proprio fauste quella del duo Alesina e Giavazzi in vista del 2015. Nella denuncia dei mali noti del nostro sistema produttivo - e quindi troppe tasse, soprattutto sul lavoro, troppa spesa pubblica - i due economisti puntano il dito su due aspetti anch'essi conosciuti ma più controversi : il nanismo delle imprese (da domani forse meno giustificato con il Jobs Act, ma è da vedere) e la propensione a dirottare gli investimenti su grandi imprese di dubbia utilità, piuttosto che incoraggiare l'innovazione.
Buona Lettura
Le Amnesie
e le illusioni
di fine anno
di
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi L’ economia italiana continua ad arretrare. Non solo il Prodotto interno lordo scende da 13 trimestri (durante i quali abbiamo perso 600 mila posti di lavoro), ma è ormai dalla metà degli anni Novanta che cresciamo meno della già bassa media europea. Quasi un punto all’anno di minor crescita rispetto ai Paesi dell’euro. In un ventennio abbiamo perso rispetto alla Germania 14 punti di Pil. Oggi il rischio maggiore è assuefarci alla recessione. Parliamoci chiaro. Non esistono scorciatoie né ricette magiche per ricominciare a crescere. Vi sono delle politiche (nostre ed europee) che ci possono aiutare a uscire dalla crisi, ma senza un più profondo rinnovamento dell’economia i nostri figli saranno più poveri di noi.
Cominciamo dal primo punto: porre fine alla recessione. La riforma del mercato del lavoro servirà a convincere le imprese ad assumere giovani con contratti a tempo indeterminato. Ma non basta. Ci vuole anche più domanda che va spostata dal settore pubblico a quello privato. Meno tasse, più consumi e investimenti privati, meno spesa pubblica. Soprattutto meno tasse sul lavoro che riducano i costi delle imprese. Dei circa 30 miliardi di maggiori tasse sul lavoro che gravano sulle imprese italiane rispetto a quelle tedesche, la legge di Stabilità ne taglia 5 il prossimo
anno e promette di tagliarne altri 20 nei due successivi. Il segno è giusto (ed è la prima volta), ma la misura e i tempi non sono adeguati a un’economia che ha urgente bisogno di riprendersi.
I tagli alla spesa pubblica assommano a circa 8 miliardi. Ma di questi solo 200 milioni recano «un nome e un cognome»: il resto sono riduzioni lineari a ministeri e tagli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni che saranno molto probabilmente compensati da maggiori imposte locali. I sussidi alle imprese vengono ridotti di 87 milioni, su un totale di alcuni miliardi. Un granello di sabbia nel deserto.
C’è chi si illude (e purtroppo sono in tanti) che la crescita verrà grazie agli investimenti pubblici promessi dall’Europa con il piano Juncker, un progetto aleatorio e dalla tempistica incerta.
Alcuni investimenti, come portare collegamenti Internet veloci a tutti i cittadini, certamente aiutano: al Nord una famiglia su tre non ha ancora accesso a Internet, una su due al Centro-Sud. E la velocità media di navigazione è di 5 megabit per secondo in Italia contro gli 8 in Germania e i 12 in Olanda. Ma la maggior parte degli investimenti pubblici ha benefici dubbi. Per esempio: davvero, dopo quanto accaduto con il Mose di Venezia, pensiamo che ci convenga contribuire con 2 miliardi di denaro pubblico alla nuova autostrada Orte-Mestre, come prevede il decreto sblocca Italia? Sarebbe una gravissima illusione pensare che imprese faraoniche come l’Olimpiade o l’Expo possano imprimere la svolta necessaria alla nostra economia.
Con investimenti come questi si continuano a premiare quegli imprenditori che vivono non di idee e di innovazione, ma di contatti con i ministeri e di partecipazione alla corruzione. Non a caso sono questi imprenditori a invocare più opere pubbliche.
Ed è proprio qui il nesso con la crescita nel lungo periodo, al di là dell’attuale recessione. Un Paese avanzato come il nostro cresce grazie all’innovazione, alle idee, alla ricerca, all’introduzione di nuovi prodotti, che non significano solo alta tecnologia ma si possono sposare con tratti tipicamente italiani, dal turismo al design all’agricoltura di nicchia, per fare alcuni esempi.
Una delle maggiori delusioni dei primi mesi del governo Renzi è la decisione di rimandare al prossimo anno la legge sulla concorrenza, una legge che dovrebbe essere varata ogni anno (e che per la verità nessun governo ha mai varato. «Entro sessanta giorni dalla data di trasmissione della relazione annuale dell’Antitrust, il governo presenta alle Camere il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza», art. 47 della Legge 23 luglio 2009, n. 99). Affinché nuove idee si trasformino in nuove imprese è necessario ribaltare l’assetto normativo. È impossibile scrivere leggi e regolamenti per imprese e prodotti che ancora non esistono ma vorrebbero nascere. Se le si sottopongono a regole costruite per settori che già esistono si rischia di farle abortire prima che si concretizzino.
In California, la «culla dell’innovazione», esiste il «diritto a innovare»: un’impresa può sviluppare un nuovo prodotto e mentre lo sviluppa le autorità disegnano con l’impresa regole adatte a quel nuovo prodotto, nell’interesse della concorrenza e dei consumatori. Questo dovrebbe essere il primo articolo della nuova Legge sulla concorrenza.
Abbiamo bisogno di imprese che, anche se nate piccole, poi crescano senza essere legate da norme disegnate per proteggere le aziende che già dominano il mercato e frequentano i corridoi dei ministeri per farsi aiutare appunto a sconfiggere gli innovatori.
Il nanismo delle nostre imprese è un altro problema serio. I ragazzi di Apple hanno cominciato in un garage, ma non ci sono certo rimasti, altro che «piccolo è bello»! Sono le grandi imprese private, produttive, innovative, rivolte al mercato globale, che non vivono di contatti con la politica, quelle che fanno crescere i Paesi avanzati. Noi ne abbiamo troppo poche. Abbiamo invece troppe imprese familiari, disposte a rimanere relativamente piccole pur di restare in famiglia. Il governo deve agevolare i processi di crescita in nome dell’apertura e di una parola colpevolmente dimenticata: liberalizzazioni.
Solo aprendosi alla concorrenza, accettando la sfida dei mercati mondiali si cresce. Vale per le aziende come per il Paese.
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