lunedì 1 dicembre 2014

PERCHE' ERA GIUSTA LA LEGGE PECORELLA SULLA NON APPELLABILITA' DELL'ASSOLUZIONE



Gaetano Pecorella ebbe il merito, nel suo periodo di militanza parlamentare, di promuovere una legge che condivido assolutamente : l'abolizione dell'appello in caso di assoluzione in primo grado, salvo la possibilità per l'accusa di ricorrere sempre in Cassazione nel caso di violazione di legge da parte dei giudici. Ma sul FATTO, non si doveva tornare più, e questo per un ragionamento logico giuridico che a mio avviso non fa una piega. Se vige il principio di presunzione di non colpevolezza (e sappiamo che nella costituzione generalmente  diffusa - ancorché non sia quella nella disponibilità di molte procure - lo é : art. 27 ), allora vale anche l'altro per il quale l'accusa va provata oltre ogni ragionevole dubbio ( con buona pace di quelli come Ferrarella, che preferirebbero l'inversione di questi principi). Bene, come può essere mai superato questo dubbio di fronte a fatti che hanno indotto i primi giudici ad assolvere ?!?! Nel caso di Alberto Stasi siamo addirittura di fronte a DUE assoluzioni, e alla Cassazione non è andato bene, ché ha ritenuto che gli indizi andassero valutati in un altro modo...( il Presidente Canzio, nella sua proposta di riforma, chiede quantomeno l'abolizione di una simile possibilità : l'impugnazione anche in caso di doppia sentenza conforme, anche se credo estenda questo impedimento alla difesa).
La Corte Costituzionale, davanti alla quale i pm portarono subito la legge che li privava della possibilità di impugnare le assoluzioni, accolse il rilievo. Se ho capito bene le obiezioni erano due. La prima era che il processo in Italia va ritenuto un unicum, e ogni singola fase non può essere considerata a sé. Mi sembra un sofisma, di quelli non infrequenti nella materia giuridica. La seconda questione era più intelligibile : l'alterazione dell'uguaglianza tra le parti, con la difesa che può appellarsi sempre e l'accusa che può contestare solo la violazione della legge. 
Ma benché più comprensibile, anche questa argomentazione mi appare errata, e l'avvocato Pecorella, su il Garantista, spiega bene il perché.
Buona Lettura 




Il Garantista

Il ricorso tocca solo all’imputato


a. Gratteri

Non c’è alcuna contraddizione in chi da un lato si oppone alla abrogazione dell’appello nell’interesse dell’imputato, e dall’altro reclama che sia escluso l’appello del pm in caso di assoluzione in primo grado. 
Il primo nodo da sciogliere è l’apparente contraddizione in cui sembra cadere chi da un lato si oppone alla abrogazione dell’appello nell’interesse dell’imputato, e dall’altro reclama che sia escluso l’appello del pm in caso di assoluzione in primo grado. Sgombriamo il campo da un falso problema: la parità delle parti. La parità delle parti è un principio estraneo ai poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato.
L’articolo 111 della Costituzione ha elevato la parità delle parti a rango costituzionale soltanto in relazione al  contraddittorio. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 26/2007, ha letto il principio di parità delle parti come una specificazione dell’art. 3 Cost. Ha scritto: chi negasse alla parità delle parti il ruolo di un connotato essenziale dell’intero processo, «finirebbe per attribuire al principio di parità dell’art. 111, una valenza derogatoria dell’art. 3». La tesi è del tutto errata: l’art. 3 ha riguardo a situazioni in cui non è consentita una disparità di trattamento in relazione a talune qualità della persona: sesso, razza, lingua, ecc.
Tutto ciò lo ha scritto, in altra occasione, e a tutela del pm, la stessa Corte costituzionale. Con la ordinanza n. 286 del 10.7.2003 ha dichiarato manifestamente infondata la questione riguardante la mancata previsione della soccombenza dello Stato in caso di assoluzione dell’imputato così motivando:«La tesi del rimettente non ha alcuna rispondenza nei lavori preparatori dai quali con nettezza risulta che il principio della parità delle parti trova la sua concretizzazione nell’eguale diritto alla prova e nella regola che questa deve formarsi in contraddittorio, ma non comporta che i poteri e i mezzi di cui le parti sono dotate debbano essere gli stessi, essendovi invece, a questo riguardo, nel processo penale una naturale asimmetria che può essere bensì attenuata, ma non eliminata, collegata com’è, allo ius puniendi che solo allo Stato può spettare».
Ci sono almeno due ragioni che sorreggono il diritto ad un secondo grado di giudizio da parte dell’imputato condannato, e che non valgono per il pm in caso di assoluzione. La prima trova il suo fondamento nell’art. 14 del Patto internazionale sui diritti umani, del 1966, e entrato in vigore nel 1976, in base al quale: «Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge». In caso di condanna in secondo grado, in riforma dell’assoluzione, nessun giudice riesamina «l’accertamento della colpevolezza », e cioè il merito. Non vi è analoga garanzia per il pm.
La seconda ragione si ricollega direttamente al diritto di difesa riconosciuto in Costituzione. Così si è espressa la Corte nella sentenza n. 98 del 1994: mentre «il potere di impugnazione riconosciuto in via di principio all’imputato quale esplicazione del diritto di difesa e dell’interesse a far valere la propria innocenza non può essere sacrificato in vista delle finalità deflattive cui si affida la previsione del giudizio abbreviato», tale riconoscimento non ne comporta «uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all’imputato dall’art. 24 della Costituzione, il quale non riguarda l’organo di accusa.
La configurazione dei poteri del pubblico ministero rimane perciò affidata alla legge ordinaria, che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art. 112 della Costituzione. D’altronde non può disconoscersi come la vigente disciplina preveda, in alcune fasi del procedimento penale, talune posizioni di vantaggio per l’organo d’accusa, il che non fa apparire irragionevole che il legislatore, per realizzare a pieno il diritto di difesa costituzionalmente garantito e ristabilire la parità processuale, munisca in altre fasi l’imputato di altri poteri cui non debbano necessariamente corrispondere simmetrici poteri per il pubblico ministero, fatte salve ovviamente le posizioni a questi costituzionalmente garantite ai fini del complessivo assolvimento delle sue attribuzioni».
La Corte ha quindi sancito espressamente una disparità tra le parti rispetto al diritto ad impugnare, disparità che ha le sue basi nella stessa Costituzione: «la diversità dei poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all’imputato e al pubblico ministero è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro assicurata dagli articoli 24 e 112 della Costituzione».
Solo una obiezione potrebbe ancora farsi: l’appello dell’imputato, in caso di condanna, e di successiva assoluzione, non si scontra con la regola del 111 secondo cui la prova deve formarsi davanti a un giudice terzo e imparziale, e cioè davanti al giudice che dovrà emettere la sentenza; ciò si sostiene, invece, nel caso dell’appello del Pubblico ministero nei confronti di una sentenza assolutoria. In realtà non vi è alcuna contraddizione, per il semplice motivo che la regola è stata scritta a garanzia dell’imputato, e perciò non può essere trasformata in un limite ai suoi diritti.
(…) Gli input che vengono dalla Cassazione dovrebbero risvegliare il Parlamento perché stabilisca questo principio: «La sentenza assolutoria non può essere riformata in peius se coloro che hanno la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato non abbiano sentito i testimoni e non abbiano valutato la loro attendibilità in prima persona ». Che è poi quanto ha prescritto la Corte europea dei diritti dell’uomo.

1 commento:

  1. Concordo in tutto. E' che la pubblica accusa si sente investita dalla missione salvifica di giungere alla Verità incontrovertibile. A dispetto del principio del favor rei che in questo caso è inserito in una prospettiva procedimentale. Ma nessun dubbio sorge se un imputato è stato assolto in primo grado e poi condannato in appello che non vi siano prove univoche circa la sua colpevolezza?

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