A forza di ripeterle, queste cifre chissà che non facciano cambiare idea a qualcuno. Mica tanti, che non mi illudo, però alcuni chissà.
I numeri sono ufficiali, la fonte è il Ministero di Giustizia. Chissà se Orlando avrà detto qualcosa al suo presidente del Consiglio, che per fare contenti i suoi fan, e risollevare la sorte dei consensi personali, ultimamente in flessione, sta pensando ad abolire quel mostro giuridico che è la prescrizione.
A pensarci bene il Premier però potrebbe rispondergli che, cambiando l'ordine dei fattori, il risultato non cambia : anche se colpa dell'accusa e non della melina dei difensori, la prescrizione ha falcidiato un milione e mezzo di procedimenti in 10 anni...Quindi, prendendo atto che i pubblici ministeri sono scarsi nel portare avanti le indagini, veniamo loro incontro togliendogli questo intralcio imbarazzante della prescrizione. Già adesso la dimensione degli imputati in attesa di giudizio è scandalosa, figuriamoci se passasse un principio siffatto.
Non sono, quelli sulla prescrizione, gli unici numeri che Valter Vecellio fornisce nel suo articolo odierno sulla Giustizia, pubblicato da Il Garantista.
Interessanti, anche se la sostanza è nota da un po', quelli relativi ai danni economici della lentezza dei processi civili, e l'evidenzazione di come altri paesi spendano per la macchina giudiziaria tanto quanto, o meno di noi, con risultati decisamente migliori. Il problema, come sempre, è COME si spendono i soldi. Da noi, si sa, la voragine sono gli stipendi, oltre che i soliti sprechi.
Infine, la tragedia carceri, con il numero dei suicidi. Particolarmente impressionante il dato sui detenuti in attesa di una sentenza definitiva, e la spiegazione psicologica non è difficile, specie pensando che, sempre in base ai numeri, 4 volte su dieci quegli imputati erano innocenti...
Le vere cifre della prescrizione: 3 volte su 4 scatta prima che il processo inizi
In dieci anni oltre un milione e mezzo di processi andati in fumo per prescrizione. Una cifra enorme, che emerge dalle tabelle messe a punto dalla Direzione Generale Statistiche del ministero della Giustizia. Per l’esattezza, tra il 2004 e il 2013 sono diventati carta straccia ben 1.552.435 procedimenti penali. Ecco: i fieri avversari di una amnistia, regolata e mirata su specifiche tipologie di reato, hanno di fronte a loro questa realtà: un’amnistia incontrollata, quotidiana, “clandestina”; eppure tacciono, questa realtà non fa scaldalo, non è oggetto di dibattito, confronto, non è neppure “notizia” che meriti di essere conosciuta.
Il dato, di per se significativo, lo diventa ancora di più se si considera che la maggior parte delle prescrizioni non è imputabile a diavolerie escogitate dalla difesa degli imputati: ben 1.134.259 procedimenti (il 73 per cento) sono andati prescritti quando il processo è ancora incardinato nella fase delle indagini preliminari; i decreti di archiviazione sono emessi dal Giudice per le indagini preliminari. Altri 63.829 procedimenti vanno a farsi benedire su sentenza del giudice per l’udienza preliminare. Solo 209.576 procedimenti sono prescritti quando si svolgono in primo grado; altri 131.856 in fase d’Appello; 3.293 in Cassazione; 9.559 dinanzi i giudici di pace. Che il 73 per cento delle prescrizioni abbia luogo durante la fase delle indagini preliminari la dice lunga, e dovrebbe far riflettere quanti si stracciano le vesti invocando l’allungamento dei termini, puntando il loro indice accusatorio agli imputati e alle loro difese.
Non solo. Per arrivare a una sentenza definitiva in Cassazione occorrono otto anni; in Spagna e Francia poco più di due. C’è poi la beffa: l’Italia è tra i paesi in cui si paga di più per una causa. Poco meno di otto anni è la durata media di un processo civile. Dai dati raccolti dall’Ocse si ricava che occorrono 2.866 giorni per arrivare al giudizio finale, passando tra primo grado, Appello e Cassazione. La Banca Mondiale conferma: peggio dell’Italia fa solo la Slovenia. Nel momento in cui a un italiano arriva la sentenza di primo grado, a un francese basta aspettare due mesi in più per l’appello. Cinque mesi dopo uno spagnolo arriva alla fine con la sentenza di Cassazione. All’italiano tocca aspettare ancora altri cinque anni e mezzo.
Processi lunghissimi fanno male a famiglie e imprese, e non soltanto per l’incertezza che creano. Vale davvero la pena fare causa quando la risposta arriva così tardi? Ma il problema è anche più semplice, tanto da produrre un’altra conseguenza indesiderata che si misura in euro. Secondo i calcoli dell’Ocse l’Italia è fra i paesi in cui portare avanti un processo costa di più. La lentezza della giustizia sottrae agli imprenditori circa 2,2 miliardi di euro di risorse. Il danno per le casse dello Stato a causa del mancato rispetto dei tempi ragionevoli del processo (Legge Pinto) è passato dagli 81 milioni di euro del 2008 agli oltre 300 milioni del 2010. Eppure l’Italia, rispetto al proprio Pil, devolve ai tribunali più o meno quanto Slovacchia, Repubblica Ceca e Svizzera: circa 300 milioni di euro l’anno. Lì, però, i processi civili durano rispettivamente quattro, cinque e otto volte meno. La rapidità della Svizzera nel risolvere le controversie legali equivale a quella del Giappone che fra i paesi analizzati dall’Ocse è quello che spende meno.
L’Ocse, a proposito dei sistemi giudiziari sottolinea un fattore trascurato ma rilevante: la spesa per l’informatizzazione della giustizia tende ad accorciare la vita dei processi rendendo anche più produttivi i giudici. L’Ocse suggerisce l’utilizzo di strumenti quali moduli digitali, portali web, registri informatici per la gestione elettronica e la consultazione dei fascicoli giudiziari; e qui si registra un grave ritardo: soltanto l’1,9 per cento del budget pubblico finisce in questo tipo di investimento, mentre dove i processi durano meno (come in Danimarca) arriva anche al quadruplo.
Anche se non ci si fa quasi più caso, e a occuparsene sono i soliti Marco Pannella, Rita Bernardini e i radicali, nelle galere italiane si continua a morire. Il sistema penitenziario è di nuovo in allarme per l’alto tasso dei decessi e a preoccupare è in particolare l’aumento dei suicidi. ”Se nel 2013 erano scesi al 30 per cento del totale delle cause di morte fra i detenuti, la previsione per il 2014 è di un ritorno al dato storico del 40 per cento: due decessi su cinque in carcere avvengono per suicidio”, è la valutazione del presidente della Società italiana di psichiatria Emilio Sacchetti. Disturbi dell’umore, d’ansia, psicotici e di personalità sono i problemi di salute mentale più frequenti tra i circa 60 mila ospiti degli istituti penitenziari della Penisola. Malattie che il più delle volte non nascono in carcere, precisano gli esperti, ma che in carcere possono acutizzarsi e peggiorare soprattutto a causa della difficoltà di screening diagnostici e assistenza mirata.
Dal 2000 a oggi nelle carceri italiane si sono contati 2.363 decessi, tra cui ben 841 suicidi. Oltre agli psichiatri, a dare l’allarme sono anche diversi garanti dei detenuti. Dopo il suicidio di un detenuto campano che si è impiccato nel bagno della sua cella a Fossombrone, il Garante dei diritti dei detenuti delle Marche Italo Tanoni ha scritto al ministro della Giustizia Orlando perché assuma ”tutti i provvedimenti necessari per porre fine a una situazione di degrado che appartiene non solo al carcere di Fossombrone, ma anche ad altre realtà delle Marche”. Le morti sono più frequenti tra i carcerati in attesa di giudizio, rispetto ai condannati, in rapporto di circa 60/40: mediamente, ogni anno in carcere muoiono 90 persone ancora da giudicare con sentenza definitiva; le statistiche degli ultimi 20 anni ci dicono che 4 su 10 sarebbero stati destinati a una assoluzione, se fossero sopravvissuti.
In definitiva, ogni anno 30-35 dei morti in carcere erano probabilmente innocenti. A questi vanno aggiunti i condannati che avrebbero potuto essere in misura alternativa. Ci sono numerosi casi di persone che in carcere non ci dovevano essere: malati terminali, paraplegici, accusati del furto di una bicicletta, di resistenza a pubblico ufficiale, immigrati ”catturati” in Questura dove erano andati a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, tossicodipendenti in preda alla disperazione. Ne vogliamo, finalmente parlare, essere messi a conoscenza, consentire dibattito e confronto? (L’interrogativo, ovviamente, non riguarda questo giornale, che è tra i pochi a parlarne: riguarda però tutti gli altri, finora in tutt’altre faccende affaccendati)
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