Immagino che i professori universitari leggano tutti Repubblica, il loro giornale di riferimento.
Peccato perché mi sarebbe piaciuto avessero contezza del ceffone che un loro collega, Galli della Loggia, gli riserva nell'editoriale odierno del Corriere.
Tutti di sinistra, progressisti, etici, i professori universitari sono una casta vecchia e immarcescibile. Lo sono da sempre, e continuano ad esserlo.
Non sono certo l'unica corporazione reazionaria e arroccata a difendere i propri privilegi, però, anche per ipocrisia, forse sono la peggiore.
Quanto scrive Galli della Loggia è in fondo solo la punta dell'iceberg.
Professori
chi non sa
guardarsi
allo specchio
La decadenza di un Paese si misura anche dall’incapacità della sua classe dirigente di vedere i propri errori, di discuterli e magari di correggerli. Ma la classe dirigente non è fatta solo dai politici. Ne fanno parte a pieno titolo pure le grandi corporazioni professionali pubbliche e private: l’alta burocrazia, i magistrati, gli avvocati, i medici, i notai, i giornalisti, i farmacisti ecc. Da queste corporazioni però, dai loro «ordini» e associazioni, in tutti questi anni — mentre il Paese si avvitava nella crisi, mentre mille nodi arrivavano al pettine — non è mai capitato di ascoltare alcuna voce autocritica di qualche consistenza. A nessuno è mai venuto in mente di avere il più piccolo rimprovero da farsi. Nulla. Tutti innocenti. Tutti attenti solo al bene pubblico, si direbbe, alla deontologia professionale, al buon andamento delle cose. Del resto, come si sa, di qualunque cosa capiti in Italia la colpa è sempre e solamente dei maledetti politici. Della «casta» per antonomasia.
E invece non è così. Parlo della situazione che conosco meglio, quella dell’Università. Poche settimane fa sul Corriere, Gian Antonio Stella ha tracciato una radiografia spietata della composizione del suo corpo docente: «L’età media delle varie fasce è impressionante: 60 anni gli ordinari, 53 gli associati, 47 e mezzo i “giovani” ricercatori (...); per ogni professore under 40 ce ne sono 474 ultrasessantenni». Siamo all’ultimissimo posto tra i Paesi europei per presenza nell’Università di docenti al di sotto dei 40 anni: l’8,8 per cento.
Ciò è la logica conseguenza, d’altra parte, del fatto che la fascia dei ricercatori, cioè il primo grado della carriera accademica, rappresenta tutt’oggi meno della metà del numero complessivo dei docenti.
Ma chi ha la colpa di una situazione che, come si capisce, ipoteca negativamente tutto il futuro culturale ed economico del Paese? Forse il governo, il Parlamento, i ministri? No. La massima colpa è dei professori universitari stessi. Bisogna sapere infatti che, grazie all’autonomia riconosciuta alle singole sedi universitarie, sono stati loro che fino ad ora hanno amministrato a proprio insindacabile giudizio l’organigramma della docenza nelle rispettive università. Sono stati loro che hanno deciso (e decidono) come impiegare i fondi a disposizione (scarsi, certo, sempre molto scarsi, ma questo è un altro discorso: tutti sono capaci di far bene quando il denaro scorre a fiumi) scegliendo ogni volta, per esempio, se far posto a due giovani ricercatori o a un ordinario, se promuovere un ricercatore nella fascia dei professori o, viceversa, far passare un professore dalla seconda alla prima fascia. Decisioni nella stragrande maggioranza delle quali il criterio fondamentale è stato sempre fatalmente uno solo: il favore ai propri amici e/o allievi, la tutela del proprio insegnamento o raggruppamento disciplinare a scapito anche di quelli che andrebbero oggettivamente rafforzati.
Ho scritto fatalmente non a caso. È inevitabile, infatti, che l’interesse collettivo degli studi e del Paese, poiché nella sede dove vengono prese queste decisioni non è rappresentato da nessuno, alla fine risulti regolarmente sacrificato. Si spiega così la situazione in cui si trovano oggi molte sedi universitarie, specie nel Sud: avendo per anni impiegato le proprie risorse nel modo sconsiderato anzidetto, adesso non hanno più i mezzi per far entrare in ruolo i docenti che hanno appena passato l’esame di abilitazione nazionale. I quali servirebbero almeno a portare un certo ringiovanimento dei quadri, mentre invece oggi sono costretti ad aspettare in una sorta di lista d’attesa infinita che sembra rovesciare il recente enunciato del ministro Giannini: da «d’ora in poi nei ruoli ma solo con il concorso» a «d’ora in poi con il concorso ma fuori dai ruoli».
Questo è ciò che in Italia significa quasi sempre l’autonomia nella realtà delle cose. Questo è il risultato inevitabile (si pensi alla magistratura) quando a una corporazione viene dato il privilegio di autoamministrarsi al di fuori di ogni controllo, di decidere essa, sostanzialmente a suo arbitrio, i propri organici e come spendere i fondi che le affida lo Stato. Dietro le altisonanti parole «autonomia» e «autogoverno» la realtà che novanta volte su cento si nasconde — e non può essere altrimenti — è l’interesse di chi sta già dentro e dei suoi protetti, la mancanza di ricambio, la difesa corporativa.
Ernesto Galli della Loggia
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