lunedì 23 febbraio 2015

LA REALTA', PER FORTUNA, E' DIVERSA DALLA PERCEZIONE DEI CATASTROFISTI

 

Gli articoli di Fugnoli sono interessanti sempre, però trattando di economia, materia che appassiona pochi - ancorché da essa dipenda gran parte delle cose della nostra vita - , non li pubblico spesso. Questo l'ho scelto perché contiene un buon messaggio per i "catastrofisti". Personalmente, non sono un'ottimista, non tendo a farmi illusioni, cerco di ragionare e decidere sulla base delle probabilità anziché sulle mere possibilità. Però, da appassionato di Storia, non mi schiaccio sulla cronaca. E la storia ci narra di crisi e cambiamenti, in una linea che però non si ferma e va avanti.
Sempre.


PERCEZIONE E REALTÀ 
  Curiosi scostamenti tra narrazioni e fatti 
 

  Chi vuole i giornali di ieri, cantavano i Rolling Stones nel 1966, chi vuole la ragazza di ieri? Nessuno al mondo, rispondevano allegri. Il politicamente corretto era di là da venire, ma la seconda parte della domanda non mancò di suscitare all’epoca grandi polemiche. Nessuno si curò invece di contraddire la prima parte, quella sui giornali. Le notizie invecchiano in fretta, si sa, e con i giornali vecchi si incarta il pesce. Eppure sfilare a caso il giornale di un mese o di un anno prima dalla pila che si accumula veloce sulla scrivania e dargli un’occhiata è altamente istruttivo. Mostra ad esempio quanto poco si capisca quello che ci succede sotto il naso e quanto la narrazione del tempo reale sia distorta dall’inclinazione politica o ideologica. Il racconto del 17 dicembre 2014, il giorno del crollo del rublo russo, letto oggi sui giornali di allora fa un certo effetto. Ancora più interessanti sono le trascrizioni di interviste radiofoniche o televisive fatte a caldo. 
È terribile, dice un conduttore americano di un’autorevole emittente, è devastante, la Russia è in ginocchio. Viene chiesto all’ospite in studio se il fallimento delle obbligazioni delle banche e della Federazione Russa sia questione di mesi o settimane e mentre l’ospite inizia a rispondere il conduttore lo interrompe per annunciare che in quei pochi secondi il rublo è sceso ancora. È chiaro, aggiunge, che la situazione è fuori controllo, che gli oligarchi e i militari stanno per fare fuori Putin mentre la popolazione si barrica in casa dopo avere speso gli ultimi rubli comprando qualsiasi cosa sia rimasta sugli scaffali semivuoti dei grandi magazzini. Chiaramente disperata viene poi definita la decisione della banca centrale di alzare i tassi al 17 per cento. Ucciderà l’economia senza salvare il rublo, è il verdetto impietoso. Nelle stesse ore, andiamo a memoria, uno dei più importanti telegiornali italiani delle 20, annuncia festoso (finalmente una buona notizia, dice il conduttore) che la caduta dell’euro continua. Oggi siamo più competitivi, chiosa sorridente. 
Sulla stessa linea, un mese più tardi, stampa e commentatori di mezzo mondo (ma in particolare di Eurolandia) definiscono sciocca e improvvida la decisione svizzera di rivalutare il franco. I giornali italiani raccontano compiaciuti le code dei poveri svizzeri costretti a fare la spesa a Como e quelli tedeschi descrivono come esuli affamati gli abitanti della Costanza svizzera che ora si trovano a dovere attraversare la strada e passare il sabato mattina nei grandi magazzini della Costanza tedesca. Nessuno nota che, con gli stessi franchi, i poveri esuli si possono portare a casa il 20 per cento di acquisti in più. Passa un altro mese e, con il senno di poi, sappiamo che Putin è ancora lì (con l’80 per cento dei consensi), che il rublo si è stabilizzato e che la borsa russa, dal primo gennaio, è salita in euro del 30 per cento (la migliore performance del mondo, naturalmente sul mercato meno raccomandato del mondo). La Svizzera, dal canto suo, ha assorbito il colpo mortale della rivalutazione con una perdita da inizio anno del due per cento (in franchi) sulla borsa di Zurigo. La quale, misurata in euro, capitalizza oggi il 10 per cento in più, lo stesso rialzo dell’Euro Stoxx. Questione di punti di vista, dunque. Le svalutazioni di chi non ci piace fanno diventare poveri, le nostre ci fanno invece un gran bene. L’euro forte era segno della fiducia che il mondo aveva nel progetto europeo, l’euro debole è segno dell’astuzia della nostra banca centrale. Detto per inciso, la banca centrale russa, ai cui vertici siedono donne e uomini che hanno conseguito il PhD al Mit o a Harvard, ha applicato e continua ad applicare quasi alla perfezione il manuale, che ai grandi produttori di materie prime prescrive di indicizzare il cambio al corso di quello che esportano. È anche normale che la banca centrale abbia inizialmente tardato ad aggiustare il rublo. Lo si fa sempre, per permettere alle imprese indebitate in dollari di acquistare velocemente valuta a un cambio ancora favorevole. Quanto alla Svizzera, che da quarant’anni rivaluta costantemente il franco rispetto al marco e poi all’euro, onore al merito. Diventa sempre più ricca e le sue imprese restano competitive spostandosi su produzioni più sofisticate. Anche l’impoverimento di Eurolandia in seguito alla svalutazione ha naturalmente un senso, ma bisogna ammettere con tristezza che, insieme alla monetizzazione del debito pubblico attraverso il Quantitative easing, è la presa d’atto della rinuncia a intraprendere strade più virtuose (aumento della produttività, riforme strutturali, aumento della flessibilità dei fattori). Tornando ai giornali vecchi, miniera inesauribile di riflessioni, fa un certo effetto leggere, su quasi tutti i numeri di dicembre, previsioni fosche sul destino degli esportatori di materie prime. A guardare oggi, il disastro appare quanto meno rinviato. La borsa saudita guadagna (tutti i dati sono in euro) il 20 per cento da inizio anno, il Messico il 5, il Cile col suo rame l’8, l’Australia e il Canada, con ogni bene immaginabile nel sottosuolo, rispettivamente l’11 e il 3. Altri esempi ancora più clamorosi di scostamento tra percezione e realtà sono la sensazione che il ritmo della crescita globale dal 2009 a oggi sia molto inferiore rispetto a quella degli anni Novanta e Duemila (è identico) e che il debito globale in rapporto al Pil, dal 2009, sia calato (è cresciuto del 30 per cento). La vera leccornia, per i lettori di giornali vecchi, restano comunque le annate 2011 e 2012, dedicate in gran parte all’uscita della Grecia e dell’Italia  dall’euro. Oggi Grecia e Italia hanno un debito pubblico più alto di allora, ma i Btp sono ai massimi di tutti i tempi, mentre la minaccia greca di uscire dall’euro sembra non suscitare nemmeno uno sbadiglio nelle borse, che ogni giorno segnano nuovi record. Teniamoci da parte i giornali di questi giorni. Quando, fra due anni, troveremo il tempo di leggerli, sapremo con il senno del poi se la sottovalutazione dei problemi di oggi è giustificata o se è solo l’altra faccia della sopravvalutazione del 2011-12. Nel frattempo, nel nostro stato inevitabile di semiciechi che vedono (male) solo il presente, continuiamo a essere neutrali sul dollaro e molto più positivi sulle borse europee che su quella americana, che sale anche lei ma non si capisce perché.

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