lunedì 11 maggio 2015

PIERLUIGI BATTISTA E IL LESSICO RENZIANO

 

Decisamente divertente, oltreché sagace, l'intervento odierno di Pierluigi Battista sulla sua rubrica settimanale - Particelle Elementari -  del Corriere, dove ad essere presi di mira, ancorché l'editorialista si tenga sulle generali, sono palesemente i renziani, capo compreso.
Ai tempi della vituperata era berlusconiana, la sinistra si consolava prendendo in giro la rozzezza dei modi e del linguaggio di molti dei "nuovi" arrivati in Parlamento. In effetti, se pure vi fossero delle eccezioni notevoli - penso a Pera, Martino, Urbani, Gianni Letta, Fisichella - la massa non brillava ( per non parlare dei leghisti). 
Però, nella Storia la Nemesi si aggira sempre, e così quelli coi fazzoletti verdi sono stati sostituiti "degnamente" dagli ortotteri di Grillo, mentre quanto a pochezza lessicale (e culturale, facile sospettare), i renziani non scherzano.
E Battista ne fa il ritratto.
Un sorriso ve lo strapperà (a meno che non vi specchiate in quegli "eroi" naturalmente...). 



Gufologia attuale del lessico politico
di Pierluigi Battista
 

Inutile negarlo, negli ultimi tempi la qualità del dibattito politico italiano è molto, ma molto migliorata. Un lessico più sofisticato, analisi profonde nella terra di Machiavelli e di Guicciardini, giudizi sempre ponderati, uno sguardo acuto, un rifiuto dei facili stereotipi, uno stare alla larga dalle semplificazioni e dalle rozzezze.
Sul taccuino del cronista si affollano gli esempi. Perché Enrico Letta critica il governo? Perché è «risentito», è «rancoroso», «non sta sereno». Qualcuno scala le vette del pensiero aristotelico e azzarda: «perché je rode». E perché Romano Prodi ha qualche dubbio sullo stile del governo? Perché «deve vendere qualche copia del suo libro»: Spinoza non avrebbe saputo dirlo meglio. E se ci si chiede che conseguenze avrà la recente sentenza della Corte Costituzionale a proposito di pensioni sul «tesoretto» , la risposta è tagliente ma definitiva: «rosiconi». Ce la faremo a rimettere in sesto i conti pubblici? Qui non si può non chiamare in soccorso Tocqueville: «gufi». E la separazione di Pippo Civati dal Pd? Il rigore politologico non arretra: «ma ‘ndo va?». E le ambizioni un po’ confuse di Landini? «Ma ‘ndo va?». E le inquietudini di Ncd? «Ma ‘ndo vanno?».       Sublime sintesi, un intrecciarsi vertiginoso di argomenti, una complessità analitica da far impallidire le severe categorie di Benedetto Croce quando invece si tratta di affrontare il comportamento ondivago di Berlusconi dopo la rottura del «patto del Nazareno»: «je rode, ma ‘ndo va?». L’inflessione romanesca è il risultato delle lunghe attese sui divanetti romani del transatlantico di Montecitorio dove il nuovo lessico politico si forgia e si affina. Ma poi l’italiano puro riprende il sopravvento.
   Dubbi vetusti sulla non eleggibilità del Senato pieno di consiglieri regionali promossi? «Non fermeranno il cambiamento». Sulla scuola? «Non arretriamo». Sui soffitti delle scuole che cadono? «Gufi che non fermeranno il cambiamento». Sulle pensioni? «Rosiconi che non fermeranno il cambiamento». L’importante è saper disporre bene gli elementi per farne combinazioni sempre più precise e sorprendenti. Dubbi in generale? «Vogliono perdere». Dubbi sulla tempistica? «Si va avanti come treni». Il Pil va indietro dello 0,1? «Non sarà uno 0,1 a essere importante». Il Pil va avanti dello 0,1? «Cambia l’Italia». E se qualcuno non fosse d’accordo sulla splendente bellezza del nuovo lessico politico? E certo: «je rode». 

 

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