domenica 12 luglio 2015

BRIAN COHEN : " PERSA IN EUROPA LA CULTURA DEL RISCHIO E IL SUCCESSO E' DEMONIZZATO"

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Come spesso denuncia dolorosamente Piero Ostellino, l'Italia è uno dei paesi più prossimi ai vizi tipici di quelli a "socialismo reale" conosciuti all'epoca trista e triste dell'URSS (che pure vedo qualche amico italico di FB rimpiangere...mah !). Del resto, anche 20 anni di fascismo mostrano una certa predisposizione ad affidarsi ad uno Stato "forte", che a tutto provvede. Certo, questo difetto stride con l'altro, pure presente nel nostro DNA : la riottosità per le regole. In fondo noi vorremmo uno Stato Papà, a cui rivolgerci per ogni difficoltà, che però non ci deve poi rompere nel dirci cosa fare ANCHE nelle altre cose della vita, dove viceversa siamo ben contenti di gestirle come ci pare. Esempi banalissimi ce ne sono a iosa, ne cito solo due : l'incuria della cosa pubblica, e quindi per esempio della conservazione della pulizia delle strade, rispetto al frequente, perfetto ordine delle nostre case private ; l'enorme debito pubblico a fronte del forte risparmio personale dei cittadini, tuttora prevalente ancorché negli ultimi lustri sia andato attenuandosi, crecendo la minoranza (ora folta) della gente che americanamente preferisce vivere  "a debito".
Sullo sfondo, una miserevole invidia sociale per le persone di successo, che ha come riverbero le mille pastoie e diffidenze che vengono frapposte a quei pochi eroi che ancora si cimentano nell'iniziativa privata.
Di seguito, l'interessante - e anche avvilente - testimonianza


    «L’Italia non ama chi ha successo 
     Se ti arricchisci diventi sospetto»
    Brian Cohen, finanziatore di start up: 
    in Europa tanti talenti ma troppa paura di sbagliare
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    NEW YORK «Il problema dell’Europa, rimasta indietro nelle tecnologie digitali, non è la mancanza di talenti. È un problema culturale: vi manca la cultura del fallimento. Pochi provano. Troppa paura di sbagliare: da voi chi fallisce è marchiato a vita. Qui, invece, riparte subito: riprova, mette a frutto la lezione appresa con l’insuccesso. Ma, più ancora di questo, a voi manca la cultura del successo: se vinci la tua sfida e guadagni parecchio non vieni celebrato, vieni avvolto dal sospetto: chi sta soffrendo per colpa tua? A chi hai fatto del male mettendoti in tasca tutti quei soldi? Pensi di meritarli? Non dovresti darli a chi ne ha bisogno? Un giovane imprenditore che ha successo deve quasi nasconderlo. È terribile».
    Nell’universo dei talent scout e dei finanziatori delle imprese della Internet economy , Brian Cohen è un personaggio molto particolare: dopo vent’anni passati tra giornalismo scientifico, comunicazione delle grandi imprese (sua la celebre campagna dell’Ibm, quando il computer «Deep Blue» sfidò a scacchi il campione del mondo, Kasparov), marketing e pubblicità, Cohen è diventato uno dei più attivi finanziatori di start up. Ed è il presidente dei «New York Angels», una costellazione di 120 investitori, i più attivi della East Coast americana. Celebre soprattutto come scopritore di Pinterest, del quale è stato il primo finanziatore, Cohen, sempre in giro per il mondo a caccia di nuove idee e di imprese promettenti, vede nubi all’orizzonte per l’Europa e anche per le grandi corporation che considera un modello di organizzazione della produzione ormai superato.
    Lo incontro negli uffici che ha a WeWork, un incubatore che ospita decine di start up in micro-uffici a basso costo divisi da vetrate nel cuore del Meatpaking District , a un passo dal nuovo Whitney Museum di Renzo Piano e dalla sede di Google a New York. Ha 55 anni, ma gira in maglietta con l’aria scanzonata e la curiosità di un ragazzino, tra i giovani imprenditori che sono lì, in corsa contro il tempo, per sviluppare idee più o meno brillanti.
    Molti qui sono europei, come l’italiano Alberto Pepe. Lei è un finanziatore della sua Authorea. Cosa li porta qui? Non è soprattutto la disponibilità dell’infrastruttura finanziaria Usa?
    «Vengono perché qui c’è un grande mercato delle imprese e gente che sa valutarle: ho appena finito un incontro con le start up svizzere. Domani tocca a quelle francesi. La settimana scorsa ho visto quelle spagnole. E seguo con attenzione anche quelle italiane. L’Italia, poi, la amo per mille altre cose: cultura, luoghi, modo di vivere. Ci vado spesso, appena posso. Vado ovunque, dalle Marche alla Sicilia. Ma non si può essere accecati dall’amore. Il disprezzo per il capitalismo che è diffuso da voi non è soltanto un dato politico. È anche un freno alla crescita. Manca la cultura del rischio, del fare impresa. Un ragazzo che vuole iniziare una sua attività spesso si sente dire dai genitori che è meglio trovare un impiego sicuro in un’azienda o nel settore pubblico».
    Niente garage come quelli di Bill Gates o Steve Jobs, in Europa, certo, ma...
    «Guardi, pensavo che questo della scarsa cultura del successo fosse uno stereotipo. Poi, viaggiando, visitando, parlando, mi sono reso conto che non è così. Sono appena tornato dalla Corea, ma prima avevo fatto un giro in Europa. A Bruxelles mi hanno organizzato un incontro con gli ambasciatori dei Paesi della Ue. Mi chiedevano come si fa ad avere successo con le start up. Ma anch’io avevo molto da chiedere loro e ho avuto conferma dei miei sospetti. I governi non c’entrano nulla con le start up: non servono, non vanno coinvolti. Invece in Europa vogliono essere coinvolti. A due livelli. Quello delle regolamentazioni, certo, ma poi c’è quella visione sociale o socialista — l’impresa o il governo che si devono prendere cura di te — che crea un ambiente ostile alla cultura delle start up. Che, però, sono destinate a giocare un ruolo sempre più rilevante in tutte le economie. Chi non lo capisce resta indietro».
    Noi le start up siamo abituati a considerarle una nicchia. Dinamica, ma pur sempre nicchia. Che crea servizi innovativi ma poco lavoro.
    «La corporation è un’invenzione. Mica esisteva in natura. Tanta gente messa insieme a lavorare con uno scopo: realizzare un prodotto in anni in cui queste attività richiedevano infrastrutture molto pesanti. Oggi in molti settori non è più così. Anni fa uscì un libro: “Me Inc”. La società individuale, i brand personali: sembravano idee stravaganti. È successo: ci sono start up come Smart Toothbrush e Toothwitz che producono spazzolini da denti migliori e meno costosi di quelli di Colgate. I giganti assaliti dalle microimprese. Hai presente “Morte per mille tagli”? Sta succedendo, e non è una storia cinese».
    La crisi della grande impresa la vediamo già. Ma un mondo fatto di piccole aziende, una specie di artigianato digitale, è difficile da immaginare.
    «I “big” hanno solo un modo per sopravvivere. Hanno ancora molti soldi: possono usarli per comprare start up che, così, diventano un loro centro ricerche. Molti lo stanno già facendo. Bisogna cambiare in fretta. Anche l’Europa ne avrebbe bisogno, ma temo che non ce la farà. Pesano vecchi sistemi difficili da abbandonare come quello delle pensioni. In America un sistema pensionistico privato quasi non esiste più. Da voi gli anziani si aspettano di incassare il loro assegno a vita. I giovani capiscono che non è più così, che è un vecchio modello, ma non possono cambiare le cose, almeno per ora».
    Torniamo tra gli angeli. Come sceglie le aziende sulle quali puntare?
    Prima di rispondere, Cohen indica con un gesto il naso e le braccia. «Fiuto e abbracci. Se fai questo lavoro di ricerca con intensità, sviluppi un fiuto per le buone idee. E, instaurando un rapporto umano con quelli che le propongono, capisci se sono in grado di trasformare l’intuizione in un’impresa che funziona. La possono far crescere? La sapranno guidare? Noi non investiamo in idee, investiamo nella loro esecuzione. Un’idea brillante sfruttata male non vale niente».
    La «next big thing»? Il business del futuro?
    «Non c’è una risposta secca: io dico i servizi per la salute in un mondo che invecchia e nel quale tutti vogliono restare giovani. Il cervello e l’estensione delle capacità sensoriali. E poi la mobilità, ma è banale: sono già tutti sull’auto che si guida da sola. Cinque anni fa sembrava il sogno di gente ingenua, adesso c’è. Molte cose vecchie torneranno a essere nuove perché dovranno essere reinventate per il nuovo mondo delle comunicazioni mobili».
    E i suoi figli in questo nuovo mondo che fanno?
    «Ne ho tre: 25, 26 e 29 anni. Hanno tutti già creato le loro prime start up. Il più grande ne ha anche venduta qualcuna».

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