giovedì 30 luglio 2015

IL VOTO PRO AZZOLINI : DEMOCRATICI GARANTISTI PER UN GIORNO

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Il problema grande del voto con il quale i senatori hanno sottratto il collega Azzolini dalla prospettiva degli arresti domiciliari non è certo quello prospettato da quella povera donnetta della Serracchiani, per non parlare di altri soggetti consimili democratici (tale Lucrezia Ricchiuti, che addirittura si sentiva Fouchè...), ché la parola "garantismo" non saprebbero scriverla nemmeno se sillabata a uso soggetti minorati. 
Come accennavo nella presentazione della notizia di ieri ( http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2015/07/il-voto-segreto-salva-azzolini-grillini.html ) , il fatto in sé, la negazione dell'ennesima misura repressiva ingiustificata (non perché Azzolini sia innocente, cosa che non so, ma perché deve essere il processo a stabilire se è colpevole o meno, e quindi se la sua libertà personale debba essere limitata) , è positivo. Ma le reazioni scomposte di diversi membri democratici stanno lì a dimostrare che non è stata una scelta basata su giusti principi, non sono state le convincenti argomentazioni difensive dei colleghi senatori che hanno contestato puntualmente gli assunti dei pm, non il ribadire ai signori in toga che il carcere, o anche gli arresti domiciliari, sono un'estrema ratio, per la quale devono ricorrere elementi ben precisi e cogenti, senza i quali l'imputato DEVE RESTARE LIBERO. 
No, nulla di tutto questo. Come ormai sempre più spesso si vede, il pollice verso scatta a seconda dell'opportunità della maggioranza di governo.
Massimo Franco, notista storico del Corsera, ribadisce proprio questo, nel suo articolo di oggi.
Buona Lettura


Da giustizialisti a garantisti (solo per interesse)

di Massimo Franco


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A sconcertare non è tanto il «no» all’arresto del parlamentare del Nuovo centrodestra, Antonio Azzollini, deciso ieri dal Senato. Colpisce soprattutto la sensazione che il destino giudiziario di una persona dipenda dal momento politico, al di là del merito delle imputazioni. Il sospetto è che il Parlamento sia condizionato dall’onda emotiva e demagogica provocata dalle sue scelte; o, come ieri, dagli equilibri di una maggioranza.


Il risultato è il trionfo di un doppio standard nel quale non si capisce più quanto contino le garanzie e la giustizia, e quanto la realpolitik nel significato più crudo del termine.
È un’incertezza sottolineata dal comportamento tenuto ieri dal Pd. Di colpo, è come se fosse finita la «fase eroica» di Matteo Renzi; e cominciato il confronto con la realtà dura di equilibri di maggioranza precari, che la «libertà di coscienza» offerta ai senatori non riesce a velare a sufficienza. Un anno fa, probabilmente il presidente del Consiglio avrebbe liquidato la pratica Azzollini con un perentorio pollice verso. Ma era un’altra epoca politica. Oggi, il suo non è il Pd feroce e vincente delle elezioni europee del 2014. È, invece, quello ammaccato dalle Regionali di maggio, dai ballottaggi di metà giugno e dagli scandali in alcune giunte locali.
Si tratta di un partito lacerato da una faida interna senza fine, che mostra il governo in bilico proprio al Senato: quello che Renzi vorrebbe riformare e depotenziare. L’esito di ieri va dunque analizzato politicamente. È l’unico modo per spiegare perché il grosso del Pd abbia votato «sì» all’arresto in commissione, per poi smentirsi in Aula; e perché abbia usato due pesi e due misure rispetto al recente passato. È chiaro che se avesse prevalso la logica applicata in alcuni casi simili alla Camera, l’esecutivo avrebbe corso seri rischi. Il partito di Angelino Alfano sa quanto i suoi voti siano indispensabili a Palazzo Chigi per sopravvivere.
«Rottamazione» oggi è una parola con un’eco ambigua. Appartiene agli inizi del renzismo, quando si trattava di conquistare il potere e dare segnali radicali di cambiamento. Ora il comandamento è la stabilità. E il premier non ha altra scelta se non quella di scendere a compromessi, favorito da opposizioni chiassose e inconcludenti; e obbligato dalla necessità di tenere conto di rapporti di forza fragili. L’imbarazzo espresso dopo il voto da alcuni esponenti del Pd non deve sorprendere. Rispecchia lo stupore di chi è stato spiazzato dalle contraddizioni e le giravolte del proprio partito.
È un comportamento parlamentare da spiegare agli elettori: tanto più nel momento in cui il governo riceve l’appoggio di Denis Verdini e dei suoi transfughi berlusconiani. Per questo il vicesegretario, Debora Serracchiani, sostiene che bisogna «chiedere scusa». Dietro commenti come il suo si indovina anche l’irritazione per il regalo involontario fatto alla minoranza interna, che invece pare abbia votato con Movimento 5 Stelle e Lega. Ma l’altro vicesegretario, Lorenzo Guerini, rivendica il «no» e il diritto a decidere dopo aver letto le carte processuali. Gli avversari insinuano malignamente che ieri Renzi ha fatto la prova generale del «partito della Nazione». Vorrebbe dire che ha già optato per un asse trasversale moderato.
Ma la conclusione appare prematura. L’impressione è di avere assistito ad una pagina ordinaria di storia parlamentare: un episodio destinato a sottolineare le difficoltà di una strategia ambiziosa che i numeri rischiano di rendere velleitaria; e dell’ennesimo scontro tra politica e magistratura, che il Parlamento stavolta risolve non assecondando i giudici ma rivendicando a scrutinio segreto la propria autonomia. Un atteggiamento dettato da convinzione o da calcolo? La domanda ineludibile è come mai il Pd «giustizialista» di alcuni mesi fa sia diventato di colpo «garantista».
Le risposte possono essere molte. La più naturale è che Renzi non può rischiare una rottura con gli alleati. Rimane da capire se sia frutto di maturità o di debolezza.

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