martedì 4 agosto 2015

LA DISOCCUPAZIONE NON CALA. RICOLFI RIPROPONE IL SUO JOB ITALIA

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Nel registrare il superamento dell'iniziale impasse parlamentare sul rinnovamento del CDA RAI, Dario Di Vico commentava sul Corriere di qualche giorno fa come la vera opposizione per Renzi non sta nelle aule del Parlamento, dove c'è molta ammuina ma poca sostanza, se non altro perché alla fine della fiera di andare alle urne non va a nessuno e quindi anche qualche frangia non appartenente alla maggioranza, al dunque rema a favore, onde evitare sbandate indesiderate. No, i guai veri si realizzano fuori, e più precisamente è l'Economia che si ostina a non sposare l'ottimismo renziano.
Sia Di Vico che Ricolfi (quest'ultimo sul Sole 24 ore) mettono l'accento sulla disoccupazione, che nonostante la decontribuzione per i neo assunti e il jobs act continua a fornire segnali negativi.
C'è da pensare che senza quelle misure le cose sarebbero andate anche peggio ma resta che l'offerta di lavoro continua ad essere bassa. In alcuni casi, notano gli osservatori, questo dipende da un atteggiamento prudente - se non vogliamo  dire pessimista - di alcuni operatori imprenditoriali che preferiscono ricorrere agli straordinari in misura massiccia piuttosto che assumere, non fidandosi della costanza dell'aumento della domanda. 
Ricolfi batte sempre sul tasto a lui caro, vale a dire l'alleggerimento fiscale sulle imprese, cioè sui soggetti che creano lavoro, riproponendo l'idea battezzata "Job Italia".
Chissà che il Premier non decida di sperimentarla. 

Perché non si deve sprecare il 2016

 
Ammettere un errore non è mai piacevole. Ma dover ammettere di essersi sbagliati per eccesso di ottimismo è ancora peggio. È quel che è successo a me: sono considerato un pessimista ma, a quanto pare, non lo sono stato abbastanza. Qualche mese fa avevo espresso un timore, e cioè che la decontribuzione sui nuovi assunti avrebbe prodotto una bolla occupazionale nel 2015 (specie nel 1° e 4° trimestre), che si sarebbe puntualmente sgonfiata nel 2016, con il venir meno degli sgravi contributivi. I dati di questi primi 6 mesi dell'anno, forniti puntualmente dall'Istat venerdì scorso, mostrano in modo molto chiaro che l'encefalogramma del mercato del lavoro è sostanzialmente piatto, e che non c'è stato alcun aumento occupazionale, reale o fittizio che sia. Il numero di occupati registrato a giugno 2015 è addirittura minore del numero di occupati di un anno fa (40mila in meno).
Ma il punto grave è che, comunque si rigirino le cifre del mercato del lavoro, i primi 6 mesi di decontribuzione e i primi 4 mesi di Jobs act non sembrano aver modificato in modo apprezzabile le tendenze precedenti, anche se, si potrebbe congetturare, che senza Jobs act le cose sarebbero potute andare ancora peggio.

La svolta nel mercato del lavoro risale al settembre 2013, quando finalmente si interrompe l'emorragia di posti iniziata nell'aprile del 2008, ma dentro questa nuova fase nulla segnala che vi sia stato un miglioramento nei primi 6 mesi del 2015. Anzi: se come termine di riferimento assumiamo le tendenze dell'occupazione negli ultimi 18 mesi, l'andamento del primo semestre 2015 si colloca nettamente sotto il trend, mentre quello dell'ultimo trimestre 2014 si collocava al di sopra. Ho fatto qualche calcolo per vedere in quanto tempo si potrebbe tornare ai massimi toccati nell'aprile del 2014, e i risultati - pur meno drammatici di quelli suggeriti da recenti analisi del Fondo monetario internazionale - non sono confortanti. Se le tendenze dell'occupazione e del Pil restassero identiche a quelle degli ultimi 18 mesi dovremmo attendere circa 10 anni, ossia l'anno 2025, per tornare al numero di occupati del 2008. E anche se il Pil, da qui in poi, dovesse crescere al ritmo medio dell'1,5%, dovremmo comunque attendere per recuperare il milione di posti di lavoro che la crisi si è portata via. Ma possiamo accontentarci di un ritmo di crescita del Pil di 1 punto e mezzo, come quello di cui oggi è accreditata l'Italia per i prossimi anni?
Secondo me no, perché anche un lieve tasso di aumento della produttività del lavoro (che ovviamente è auspicabile, per restare competitivi) è sufficiente a sterilizzare gli incrementi del Pil, a meno che essi risultino cospicui. In concreto vuol dire che, se vogliamo creare 300mila posti di lavoro all'anno (appena sufficienti a riassorbire il grosso della disoccupazione attuale in 10 anni, e a farci diventare un Paese Ocse normale in 20), il Pil dovrebbe crescere in una misura prossima al 2,5% l'anno, ben oltre le attuali previsioni.

Naturalmente so benissimo che un risultato del genere richiederà anni, e che ad esso potranno contribuire alcune riforme, in particolare quelle della burocrazia e della giustizia civile. E tuttavia penso che non possiamo aspettare e che, nel breve periodo, l'unico strumento che può avere un impatto significativo sul tasso di crescita, e quindi sull'occupazione, sia una riduzione della pressione fiscale sui produttori. Da questo punto di vista trovo preoccupante che, finora, a parte la (sacrosanta) abolizione dell'imposta sulla prima casa, ben poco sia previsto per il 2016. Dobbiamo ricordare, infatti, che nel 2016, ossia fra meno di 5 mesi, cesserà la decontribuzione sugli assunti a tempo indeterminato, e non saranno ancora in vigore né la riduzione dell'Ires né quella dell'Irap, che Renzi ha annunciato per il 2017. Il 2016, in altre parole, rischia di essere un anno in cui viene completamente a mancare ciò di cui più v'è bisogno, ovvero un alleggerimento della pressione fiscale su chi crea ricchezza.
Come uscirne?
Io vedo solo tre strade, le prime due onerose per le casse pubbliche, la terza no. La prima strada è di anticipare al 2016 i promessi sgravi Ires e Irap, una misura che può avere efficacia solo se incide per almeno 5-10 miliardi. La seconda è di trovare le risorse per prorogare di almeno un anno la decontribuzione, un provvedimento che potrebbe costare un po' meno del previsto (5 miliardi) proprio perché le imprese non pare ne stiano facendo un uso massiccio. La terza è di puntare a un sostegno della sola occupazione incrementale, secondo le linee a suo tempo suggerite dalla Fondazione David Hume con la proposta del Job Italia: 5 anni di eliminazione completa dei contributi sociali per i posti di lavoro creati da imprese che aumentano il loro livello di occupazione. Il vantaggio di questa proposta è che sarebbe a costo zero, in quanto finanziata dalla accelerazione del Pil (ogni posto di lavoro aggiuntivo crea nuovo Pil, che a sua volta crea gettito addizionale con cui è possibile coprire i contributi sociali).

Avendo contribuito a elaborare l'idea del Job Italia non sono nella posizione migliore per giudicare vantaggi e svantaggi delle tre proposte. Quel che mi sento di dire, tuttavia, è che, sul dramma dell'occupazione, non si può aspettare il 2017. Ridurre la precarietà del lavoro, come in parte è riuscito a fare e sta facendo il Jobs act, è stata cosa buona e giusta. Ma ora è tempo di cominciare a crearlo, il lavoro, è tempo di metter mano a una “fase 2”, che guardi ai milioni di giovani e di donne che il lavoro non ce l'hanno. Il 2016 è alle porte. Non sprechiamolo.

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