lunedì 28 settembre 2015

OMAGGIO A PIETRO INGRAO

 

Alla notizia della morte di Ingrao, mia madre ha rammentato che la moglie era stata sua collega come professoressa in non so quale liceo della capitale, e che lei non riusciva a capacitarsi di come una donna così elegante avesse scelto un uomo tanto "casareccio", immagino riferendosi ad un (non) stile troppo impregnato di semplicità che caratterizzava il dirigente comunista.
La mia genitrice è un po' vanesia, va perdonata (è una persona profondamente buona, magari un pizzico superficiale va...).
Personalmente di Ingrao ricordo la coerenza, riconfermata nel 1989 quando si opponeva alla svolta occhettiana di superamento del PCI, e la serietà e lo scrupolo con cui esercitò il suo ruolo di presidente della Camera. Altro che FIni, ieri, o Boldrini ( e Grasso...) oggi.
Comunque, sicuramente un pezzo di storia della repubblica, per cui trovo giusto omaggiarlo pubblicando l'articolo che Paolo Franchi gli dedica sul Corriere della Sera
Buona Lettura


Il comunista che amava il dubbio e voleva la luna


di Paolo Franchi


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Se ne è andato a cent’anni un pezzo, e che pezzo, non solo della storia del Pci e della sinistra, ma anche e soprattutto, se l’espressione nell’Italia dei novissimi ha ancora un senso, della storia repubblicana. Perché Pietro Ingrao, nato nel 1915, nel Novecento italiano, e pure nel primo scorcio del Terzo Millennio, si è tuffato, o si è sentito buttato dentro, nel 1936, con la guerra di Spagna .
Poi Pietro Ingrao ha nuotato senza risparmio di sé finché ha avuto un minimo di energie per farlo. Nel Pci, finché c’è stato il Pci. Ma, prima e dopo, guardando oltre i confini del suo partito. Ai movimenti, sì, senza lasciarsi rinchiudere, se non da compagni e avversari avvezzi all’uso e all’abuso della banalità come strumento di lotta e di aggressione politica, nel movimentismo. Ma pure, eccome, alle istituzioni, allo Stato, a interlocutori molto lontani da lui, che a torto o a ragione gli sembravano interessati a tessere le fila di un discorso di cambiamento e di riforma. La cosa potrà sembrare strana o insensata a giovani politici di successo che si fanno un vanto di non avere passato e di non coltivare memoria. E però nel 1969 — lo stesso anno dell’autunno caldo che visse come un inveramento forse insperato delle sue posizioni sconfitte all’undicesimo congresso del Pci, lo stesso anno in cui i suoi compagni più cari, quelli del «manifesto», venivano radiati dal partito — fu lui, Ingrao, il primo interlocutore di Ciriaco De Mita non sul compromesso storico, che non convinse mai nessuno dei due, ma sulle riforme istituzionali che avrebbero potuto sbloccare la democrazia italiana. Più tardi, lasciata nel 1979, la presidenza della Camera, fu ancora lui ad avviare, con il Centro per la riforma dello Stato, il primo confronto di merito con le socialdemocrazie europee in tempi in cui, per i comunisti, socialdemocrazia era una parolaccia. E nella seconda metà degli anni Ottanta fu sempre lui il più radicale fautore del monocameralismo.
Tutto questo solo per ricordare che stiamo parlando di una personalità complessa, molto più complessa, del cliché dell’acchiappanuvole consegnatoci da tanti suoi ex compagni del vecchio gruppo dirigente comunista. Ingrao fu amato, amatissimo, dalla sua gente: il che, tocca dire, capita raramente agli intellettuali inclini all’astrattezza. Indimenticabile, per chi la ha vissuta, resta l’ovazione che gli riservò, correva l’anno 1966, la platea dell’undicesimo congresso del Pci, quello della sua sconfitta e del suo isolamento, mentre la presidenza dei vincitori lo guardava gelida: chissà quanto e come sarebbe cambiata la storia italiana, non solo quella del Pci e della sinistra, se il diritto a non essere d’accordo rivendicato da Ingrao non fosse stato liquidato come la più inammissibile delle eresie .
Ma tornano pure alla mente le parole con cui Ettore Scola spiegò perché volle collocare una scena chiave del suo film «Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca» all’interno di un comizio di Ingrao a piazza San Giovanni. Perché, disse, tra i dirigenti comunisti lo sentivo il più vicino al dramma della povera gente: probabilmente oggi molti salirebbero in cattedra a spiegarci che si trattava, né più né meno, di populismo, dimenticando, o fingendo di dimenticare, che una sinistra senza popolo semplicemente non esiste.
Forse questo ha qualcosa, o molto, da spartire, con l’espressione, all’apparenza ermetica, cui Ingrao fece ricorso per spiegare, sul finire del 1989, la sua opposizione alla svolta di Achille Occhetto. Che, secondo lui, non solo cancellava un orizzonte ideale senza il quale il partito, comunque denominato, avrebbe perso la sua stessa ragion d’essere, ma tagliava seccamente un «grumo di vissuto», una storia collettiva fatta anche di un’infinità di microstorie: liquidava cioè quella capacità di stabilire un nesso tra passato, presente e futuro senza il quale (Matteo Renzi andava ancora a scuola) l’agire politico si snoda istante dopo istante, annuncio dopo annuncio, improvvisazione dopo improvvisazione. Forse sbagliava Ingrao, e così radicalmente da ritrovarsi per un tratto alleato, proprio lui, di quelle componenti più conservatrici del Pci che per una vita lo avevano contrastato, considerandolo una specie di matto in casa. Ma la sua preoccupazione, come dimostrano le tristi sorti del postcomunismo italiano, e più in generale quelle della Seconda Repubblica, non era infondata, e in ogni caso non era spiegabile solo come un rigurgito di passatismo.
Si ritrasse, allora, Ingrao, dalla milizia politica quotidiana. Non dalla politica, però, dentro il cui gorgo stava da più di cinquant’anni, e che continuava a rappresentare il fulcro della sua esistenza, anche quando poetava — ed è stato un poeta vero, non un dilettante della domenica — o si occupava di cinema, l’altra grande passione (memorabili le pagine su Charlie Chaplin, e non solo) della sua vita. Continuò a provare quella capacità di indignarsi senza la quale, pensava, l’impegno politico non ha senso, ma non diventò mai un indignato in servizio permanente effettivo: «Indignarsi non basta». Riguardò molto criticamente il passato. Ma restò comunista, come può esserlo un eterno sconfitto che, per provarsi a cogliere il senso di una storia e di una vita, ha scritto, in una delle sue poesie più dolenti: «Pensammo una torre/ scavammo nella polvere». Forse è anche per questo che tante generazioni di giovani, non solo nel Pci, gli hanno voluto bene, o almeno lo hanno rispettato e lo rispettano, sul serio. Di sicuro è anche per questo che a molti giovani di tanti anni fa, che diventando adulti e poi anziani hanno seguito percorsi così diversi dal  


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