Non è possibile che uno come Renzi, con quel piglio decisionista, irriverente, quando non arrogante e presuntuoso, possa tollerare a lungo un contropotere adeguatamente forte.
Non avviene coi sindacati, svillaneggiati (cosa alla quale personalmente plaudo convinto, specie se si tratta di Camusso e la sua CGIL) ogni due per tre, non avviene con le cariche più alte dello Stato, in particolare penso al recente conflitto, vinto, con il presidente del Senato (i presidenti della Repubblica non gli si sono mai contrapposti. Mattarella è un sepolcro, Napolitano più che altro cercava di persuaderlo, invitandolo qualche volta a scelte più prudenti).
Non può avvenire con la magistratura. La Giustizia non è un tema che sta particolarmente a cuore al premier, e infatti si vede. Però, quando se ne occupa, non è disponibile a stare sotto dettatura della associazione nazionale dei magistrati.
E fa BENISSIMO.
Questo proprio come METODO. Nel merito, lascia che Orlando cerchi compromessi non confliggenti, e infatti è stata partorita una legge sulla responsabilità civile di lor signori estremamente blanda. Ma siccome NON lo è totalmente come la volevano loro (gli hanno eliminato il filtro di ammissibilità !!! una lesa maestà !) ecco che quelli se la sono legata al dito.
In realtà, dare un colpo al cerchio ed uno alla botte - che NON è un buon modo di fare delle riforme serie - non può andare bene a chi da 20 anni e passa ha fatto il buono e il cattivo tempo.
E così, nel giorno di apertura della loro consueta assise sindacale annuale, ecco che , senza tema di vergogna o senso del ridicolo, il dr. Sabelli parla di delegittimazione della magistratura da parte della politica.
Ora, i magistrati, negli ultimi lustri, si delegittimano davanti ai cittadini tranquillamente da soli, come dimostrato il tracollo dell'indice di fiducia nei loro confronti che un tempo - ormai preistorico - erano la terza istituzione della Nazione, dopo i vigili del fuoco, l'Arma e il Capo dello Stato.
Oggi veleggiano verso gli ultimi posti della classifica, avvicinandosi al livello infimo della classe politica (e del resto, come potrebbe essere diversamente ? letto i fatti del Tribunale di Palermo ? e il conflitto Bruti Liberati Robledo a Milano ? ma sono solo due macroscopici esempi).
Pare che la linea del Piave sia stata individuata nella legge che dovrebbe disciplinare la delicata materia delle intercettazioni.
Ora, questo è uno tra i campi in cui hanno torto marcio in modo palese, e questo è evidenziato dall'andamento degli altri paesi, quelli che sempre vengono chiamati in causa dagli italiani (per ? ) bene in contrapposizione alla famigerata italietta : Germania, Francia, GB, meno America.
Bene, in TUTTI questi posti l'uso delle intercettazioni è infinitamente inferiore a quello italiano, il che certifica il chiaro abuso dei nostri pm in materia. Ma questi signori ormai non saprebbero più nemmeno trovare la strada di casa senza spiare il telefono del responsabile dello stradario cittadino...
Non è ovviamente solo questo. La soffiata delle intercettazioni, prassi illegale e mai sanzionata ( che possono punire se stessi o i loro adepti ?) è strumentale non solo alla manipolazione delle indagini, attraverso il controllo dell'opinione pubblica sul singolo caso, ma anche alle varie battaglie politiche che ormai per certi magistrati rappresentano la funzione primaria del loro ruolo.
Quindi tutto deve rimanere com'è.
Può tollerare simile iattanza uno come Renzino ??
No, e questo mi fa ben sperare. L'uomo è coriaceo e se veramente si decidesse di rottamare la punta di lancia della magistratura politicizzata, potrebbe anche riuscire laddove per altri è stato onirico solo immaginarlo.
Se viceversa se la facesse sotto, perché in questo caso in effetti l'avversario è potente, sarebbe il solito quaquaraquà, forte coi deboli e vile coi forti.
Vedremo
Francesco Verderami
I nemici di Berlusconi sono diventati i nemici di Renzi: uno dopo l’altro, mese dopo mese, man mano che il suo governo realizzava pezzi del programma del vecchio centrodestra. Dopo la responsabilità civile dei magistrati, l’abrogazione dell’articolo 18 e il taglio delle tasse sulla casa, per chiudere il cerchio manca ormai soltanto la riforma delle intercettazioni, che non a caso i magistrati hanno eletto a linea di trincea.
Il premier si attendeva l’offensiva delle toghe — il suo Guardasigilli l’aveva messo sull’avviso — ma non immaginava che il presidente dell’Anm Sabelli arrivasse a sostenere che «il tema delle intercettazioni è diventato più importante della lotta alla mafia». Un oceano di distanza non basta ad attutire l’onda d’urto della reazione: «Si dà scandalo per coprire un altro scandalo?». Dietro una frase all’apparenza criptica si cela un’irritazione provocata dall’assenza di riconoscenza verso un governo che, finora, aveva scelto di mantenere un basso profilo e di non accendere i riflettori su un’inchiesta che sta colpendo proprio il Palazzo di giustizia considerato l’avamposto nella lotta al crimine organizzato: Palermo. La voragine che si è aperta nel Tribunale del capoluogo siciliano sta inghiottendo i vertici della sezione Misure di prevenzione, per una storia di corruzione e abuso d’ufficio legata alla gestione dei beni confiscati alla mafia, con un giro d’affari milionario che vede coinvolti un giudice e anche suoi famigli. Dal sindacato togato, nel giorno d’apertura del loro congresso, Palazzo Chigi si attendeva «almeno un cenno d’autocritica», invece «proprio mentre sono sotto scacco loro, pensano di mettere sotto attacco noi». È vero, il braccio di ferro tra il governo e l’Anm era già in atto, un conflitto strisciante che non era diventato guerra aperta perché — quando venne varata la norma sulla responsabilità civile dei magistrati — Renzi era riuscito a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro ferie.
Ma il tema delle intercettazioni per l’Anm è un totem come lo era l’articolo 18 per i sindacati. E Sabelli ha sferrato il colpo, o forse si è sentito in dovere di sferrarlo, se è vero che — in recenti conversazioni riservate — ha confidato ad un esponente dell’esecutivo di sentirsi «pesantemente pressato dalla base», aggiungendo di non vedere «l’ora di finire il mandato». Il suo teorema, pronunciato per di più davanti al capo dello Stato, ha spinto — e non a caso — il vice presidente del Csm Legnini a prendere le pubbliche distanze. E soprattutto ha innescato la reazione del governo.
Il primo ad accendere ieri i riflettori su Palermo e sul «messaggio devastante» che quell’indagine «per reati gravissimi» sta trasmettendo al Paese, è stato il ministro dell’Interno. Poco dopo — altro fulmine a ciel sereno — il ministro della Giustizia con un’inusuale dichiarazione all’ Ansa ha annunciato che «l’ispezione» al Tribunale siciliano «si chiuderà nel giro di alcuni giorni». Come non bastasse, Orlando ha voluto evidenziare una norma «da noi varata per mettere un tetto ai compensi degli amministratori di beni confiscati». Così ha messo il dito nella piaga, dando anche lui evidenza a un caso finito al centro di un’inchiesta.
Le sortite dei due ministri sono parse altrettanti messaggi alle toghe e al loro presidente, una risposta all’ excusatio non petita pronunciata da Sabelli, che aveva respinto «la falsa immagine di una corporazione volta alla difesa dei propri privilegi», e aveva rigettato l’idea di una magistratura «rappresentata come un ceto elitario e oligarchico». Sarà, ma da giorni sulle scrivanie di molti dicasteri e di Palazzo Chigi giace l’intervista a Panorama dell’avvocato Cappellano Seminara, coinvolto nell’indagine a Palermo. Una sua frase è segnata con l’evidenziatore:
I nemici di Berlusconi sono diventati i nemici di Renzi: uno dopo l’altro, mese dopo mese, man mano che il suo governo realizzava pezzi del programma del vecchio centrodestra. Dopo la responsabilità civile dei magistrati, l’abrogazione dell’articolo 18 e il taglio delle tasse sulla casa, per chiudere il cerchio manca ormai soltanto la riforma delle intercettazioni, che non a caso i magistrati hanno eletto a linea di trincea.
Il premier si attendeva l’offensiva delle toghe — il suo Guardasigilli l’aveva messo sull’avviso — ma non immaginava che il presidente dell’Anm Sabelli arrivasse a sostenere che «il tema delle intercettazioni è diventato più importante della lotta alla mafia». Un oceano di distanza non basta ad attutire l’onda d’urto della reazione: «Si dà scandalo per coprire un altro scandalo?». Dietro una frase all’apparenza criptica si cela un’irritazione provocata dall’assenza di riconoscenza verso un governo che, finora, aveva scelto di mantenere un basso profilo e di non accendere i riflettori su un’inchiesta che sta colpendo proprio il Palazzo di giustizia considerato l’avamposto nella lotta al crimine organizzato: Palermo. La voragine che si è aperta nel Tribunale del capoluogo siciliano sta inghiottendo i vertici della sezione Misure di prevenzione, per una storia di corruzione e abuso d’ufficio legata alla gestione dei beni confiscati alla mafia, con un giro d’affari milionario che vede coinvolti un giudice e anche suoi famigli. Dal sindacato togato, nel giorno d’apertura del loro congresso, Palazzo Chigi si attendeva «almeno un cenno d’autocritica», invece «proprio mentre sono sotto scacco loro, pensano di mettere sotto attacco noi». È vero, il braccio di ferro tra il governo e l’Anm era già in atto, un conflitto strisciante che non era diventato guerra aperta perché — quando venne varata la norma sulla responsabilità civile dei magistrati — Renzi era riuscito a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro ferie.
Ma il tema delle intercettazioni per l’Anm è un totem come lo era l’articolo 18 per i sindacati. E Sabelli ha sferrato il colpo, o forse si è sentito in dovere di sferrarlo, se è vero che — in recenti conversazioni riservate — ha confidato ad un esponente dell’esecutivo di sentirsi «pesantemente pressato dalla base», aggiungendo di non vedere «l’ora di finire il mandato». Il suo teorema, pronunciato per di più davanti al capo dello Stato, ha spinto — e non a caso — il vice presidente del Csm Legnini a prendere le pubbliche distanze. E soprattutto ha innescato la reazione del governo.
Il primo ad accendere ieri i riflettori su Palermo e sul «messaggio devastante» che quell’indagine «per reati gravissimi» sta trasmettendo al Paese, è stato il ministro dell’Interno. Poco dopo — altro fulmine a ciel sereno — il ministro della Giustizia con un’inusuale dichiarazione all’ Ansa ha annunciato che «l’ispezione» al Tribunale siciliano «si chiuderà nel giro di alcuni giorni». Come non bastasse, Orlando ha voluto evidenziare una norma «da noi varata per mettere un tetto ai compensi degli amministratori di beni confiscati». Così ha messo il dito nella piaga, dando anche lui evidenza a un caso finito al centro di un’inchiesta.
Le sortite dei due ministri sono parse altrettanti messaggi alle toghe e al loro presidente, una risposta all’ excusatio non petita pronunciata da Sabelli, che aveva respinto «la falsa immagine di una corporazione volta alla difesa dei propri privilegi», e aveva rigettato l’idea di una magistratura «rappresentata come un ceto elitario e oligarchico». Sarà, ma da giorni sulle scrivanie di molti dicasteri e di Palazzo Chigi giace l’intervista a Panorama dell’avvocato Cappellano Seminara, coinvolto nell’indagine a Palermo. Una sua frase è segnata con l’evidenziatore:
«In tutti i Tribunali ci sono familiari di giudici che
assumono incarichi assegnati dallo stesso distretto giudiziario in cui operano
i congiunti».
Con l’approssimarsi della riforma sulle intercettazioni era chiaro che la
tregua tra Renzi e le toghe non avrebbe retto. Non è ancora chiaro, però, fino
a che punto si spingerà il conflitto, in una fase segnata da scandali e
manette.
Di certo il premier non poteva che reagire davanti al teorema di Sabelli: «La nostra generazione di politici — dice Alfano come a farsi portavoce del governo — è quella che ha più contrastato la mafia e che ha ottenuto grandi risultati». La miccia è accesa.
Di certo il premier non poteva che reagire davanti al teorema di Sabelli: «La nostra generazione di politici — dice Alfano come a farsi portavoce del governo — è quella che ha più contrastato la mafia e che ha ottenuto grandi risultati». La miccia è accesa.
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