Interessante ed efficace l'accostamento storico di Paolo Mieli tra l'Italia del '43, all'indomani della caduta del fascismo e dell'armistizio e la Siria di oggi. Certo, paragonare Vittorio Emanuele III, con tutti i suoi errori e la sua ignavia, ad Assad, responsabile della morte di centinaia di migliaia di Siriani, francamente appare eccessivo, ma Mieli spiega bene il senso del suo parallelo : la necessità di rimandare i conti al momento della sconfitta del nemico principale. Ieri era il nazismo, oggi il Califfato.
E' , osserva Mieli, una decisione probabilmente opportuna, forse necessaria e quindi inevitabile.
Però nel farla, tenere bene in mente che si tratta di un "rinvio", e che Assad resta colpevole dei crimini che il direttore fa molto bene a ricordare. Anche perché salta sempre fuori qualche revisionista, e infatti ecco che un poeta ottantacinquenne (magari l'età avanzata c'entra con il delirio del nostro...), Ali Ahmad Said, in arte Adonis, " in un’intervista al quotidiano di Beirut As-Safir ha testé sostenuto che Assad non è affatto un dittatore sanguinario, che è stato democraticamente eletto, che i profughi sono semplici migranti e che
Purtroppo queste persone disturbate - ammettendo la loro buona fede, altrimenti sono dei veri e propri criminali - trovano sempre qualcuno che dà loro retta e in Germania una cittadina ha deciso di assegnare ad Adonis un premio per la pace.
Ora, va bene che quelli di Stoccolma sono stati capaci di assegnare il Nobel in materia a un Obama appena eletto, e quindi era impossibile che in neo presidente USA avesse fatto alcunché a favore della pace nel mondo ( in realtà non è stato capace di fare nulla nemmeno dopo) , se non qualche bel discorso pieno di buone intenzioni, specie nei confronti del mondo arabo.
Però anche la relatività dovrebbe avere dei limiti.
Assad è un criminale, sterminatore della sua gente, così come lo furono Gheddafi e Saddam. Se poi i dittatori da quelle parti vanno considerati il male minore, per la loro ostilità al fondamentalismo religioso islamico (pur essendo tutti musulmani credenti e praticanti, ovvio), questa potrebbe essere una durissima realtà con la quale fare i conti.
Ma forse no.
Buona Lettura
Le colpe di Assad (l’Alleato)
di Paolo Mieli
Come possiamo misurare se questa volta si sta davvero dando vita ad una
coalizione capace di combattere il terrorismo islamico? Dall’impegno a dirci
coraggiosamente alcune verità connesse a tale scelta. E a farlo nei modi più
diretti, espliciti. Iniziando dalla prima (che non è nemmeno detto sia la più
terribile): se è vero che Stati Uniti e Russia — e noi con loro — hanno deciso
di rinviare ad un «secondo tempo» la deposizione di Assad, dovremo imparare
ad obbedire in materia siriana ad una sorta di «legge dell’oblio». Quantomeno di un oblio momentaneo. La legge di cui stiamo parlando è quella che si autoimposero gli antifascisti italiani che tra il 1943 e l’inizio del 1944 avrebbero voluto liberarsi di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Pietro Badoglio, ma dovettero cambiare proposito. Sbarcò in Italia Palmiro Togliatti che, su un saggio impulso di Stalin, suggerì il rinvio della questione istituzionale a un tempo successivo alla fine della guerra. Fu così che le due resistenze, quella vera e propria e quella sabauda, dimenticarono i motivi di ostilità e poterono
combattere gomito a gomito.
I conti li avrebbero fatti, ordinatamente, un anno dopo la conclusione del conflitto.
La situazione di adesso è ovviamente diversa ma c’è qualcosa di simile.
Veniamo, perciò, alle conseguenze sgradevoli della decisione di posticipare la questione Assad. La prima comporta l’abbandono al loro destino dei ribelli anti-Assad, quei «fantasmi» (la definizione è del ministro degli Esteri russo) sui quali Barack Obama aveva investito cinquecento milioni di dollari, ricevendone una delusione tale che già un mese fa era stata sospesa la generosa politica di aiuti. Dobbiamo poi iniziare a dimenticare (temporaneamente) come tutto ha avuto inizio: le manifestazioni di Damasco del marzo 2011, allorché gli uomini di Assad chiusero i manifestanti dentro le moschee per poi lasciarli uscire a piccoli gruppi, farli prendere a sassate e legnate da militanti baathisti e provocare in questo modo 180 morti nel giro di una decina di giorni. Dovremmo dimenticare (temporaneamente) che a novembre di quello stesso annola Lega araba votò al Cairo una
dura reprimenda contro la Siria
anche in conseguenza del fatto che proprio in quei giorni, secondo un rapporto
della Commissione di inchiesta indipendente dell’Onu, le forze di Assad avevano
ucciso una quantità impressionante di oppositori tra i quali «almeno 256
bambini».
Nel febbraio successivo, più di ottanta persone furono trucidate a Homs.
Persero successivamente la vita, per mano di uomini di Assad, un fotografo
francese e l’americana (inglese d’adozione) Marie Colvin del Sunday Times . Da
quel momento iniziò una vera e propria mattanza. Dobbiamo poi (temporaneamente)
dimenticare la nuova strage di bambini che si consumò il 25 maggio del 2012 a Hula, definita «una
tragedia brutale» dall’inviato Onu Robert Mood. E premere sulla Turchia perché
affidi (momentaneamente) al dimenticatoio l’abbattimento, un mese dopo, del suo
caccia F-4. Dobbiamo non pensare più alla diserzione, in luglio, del generale
Manaf Tlass figlio di quel Mustafa Tlass che era stato braccio destro del padre
di Assad, Hafez, nonché organizzatore del massacro di Hama del 1982. Ci sembrò
che l’abbandono dell’ultimo erede di quella dinastia di sterminatori segnasse
l’inizio della fine per l’autocrate siriano. Bene: quella sensazione di
sollievo possiamo dimenticarcela definitivamente. Temporaneo dovrebbe essere
invece l’oblio per quel che l’aviazione di Damasco iniziò a fare il 15 dicembre
del 2012, bombardando il campo profughi palestinesi di Yarmuk; un missile
centrò la moschea Abdel Qader Husseini provocando una strage nell’indifferenza
di opinioni pubbliche occidentali in altre circostanze ben più vigili sulle
sorti di quello stesso popolo. Dobbiamo (temporaneamente) dimenticare che
l’anno successivo Assad cominciò a usare armi chimiche e che gli Stati Uniti,
pur avendo annunciato che quella sarebbe stata l’invalicabile «linea rossa»
prima di un loro intervento, non ritennero di reagire. Eravamo nell’estate del
2013 e a metà settembre Ban Ki-moon sostenne che Assad aveva commesso «crimini
contro l’umanità» annunciando che ci sarebbe stato «un processo per accertare
le sue responsabilità» quando tutto fosse finito. Di questo, magari,
ricordiamocene al momento opportuno. Evitiamo invece (temporaneamente) di
andare con la memoria alla vicenda di quel chirurgo trentaduenne, Abbas Khan,
cittadino inglese, che fu fatto prigioniero dalla polizia siriana, tenuto in
carcere tredici mesi finché quando, su pressione del Foreign Office, il regime
ne annunciò la liberazione, i secondini comunicarono che si era suicidato in
cella.
Certo, sarà dura dover abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno ci rinfaccerà le due o trecentomila uccisioni volute da Assad.
ad obbedire in materia siriana ad una sorta di «legge dell’oblio». Quantomeno di un oblio momentaneo. La legge di cui stiamo parlando è quella che si autoimposero gli antifascisti italiani che tra il 1943 e l’inizio del 1944 avrebbero voluto liberarsi di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Pietro Badoglio, ma dovettero cambiare proposito. Sbarcò in Italia Palmiro Togliatti che, su un saggio impulso di Stalin, suggerì il rinvio della questione istituzionale a un tempo successivo alla fine della guerra. Fu così che le due resistenze, quella vera e propria e quella sabauda, dimenticarono i motivi di ostilità e poterono
combattere gomito a gomito.
I conti li avrebbero fatti, ordinatamente, un anno dopo la conclusione del conflitto.
La situazione di adesso è ovviamente diversa ma c’è qualcosa di simile.
Veniamo, perciò, alle conseguenze sgradevoli della decisione di posticipare la questione Assad. La prima comporta l’abbandono al loro destino dei ribelli anti-Assad, quei «fantasmi» (la definizione è del ministro degli Esteri russo) sui quali Barack Obama aveva investito cinquecento milioni di dollari, ricevendone una delusione tale che già un mese fa era stata sospesa la generosa politica di aiuti. Dobbiamo poi iniziare a dimenticare (temporaneamente) come tutto ha avuto inizio: le manifestazioni di Damasco del marzo 2011, allorché gli uomini di Assad chiusero i manifestanti dentro le moschee per poi lasciarli uscire a piccoli gruppi, farli prendere a sassate e legnate da militanti baathisti e provocare in questo modo 180 morti nel giro di una decina di giorni. Dovremmo dimenticare (temporaneamente) che a novembre di quello stesso anno
Certo, sarà dura dover abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno ci rinfaccerà le due o trecentomila uccisioni volute da Assad.
Ma, se vogliamo che
la guerra contro l’Isis sia efficace, è giunto il momento di accantonare
(temporaneamente) questi ricordi. E di farlo a testa alta, senza infingimenti,
ammettendolo apertamente. Tanto più che, probabilmente, questo non sarà neanche
il peggiore dei compromessi che ci verranno chiesti. Del resto sarebbe da
sciocchi pensare che si possa partecipare ad un’impresa così ambiziosa senza
essere costretti a pagare un prezzo. Limitiamoci, per il momento, ad evitare
gli eccessi indotti dal realismo politico, a non inoltrarci per sentieri che
potrebbero condurci alla beatificazione del despota di Damasco. Il poeta
ottantacinquenne Ali Ahmad Said, in arte Adonis, in un’intervista al quotidiano
di Beirut As-Safir ha testé sostenuto che Assad non è affatto un dittatore
sanguinario, che è stato democraticamente eletto, che i profughi sono semplici
migranti e che la Siria
è minacciata da un complotto internazionale di forze oscure che vogliono
distruggerla. Non sappiamo se sia anche in omaggio a queste sue dichiarazioni
che tra qualche giorno la città tedesca di Osnabrueck gli assegnerà il premio
per la pace intitolato a Erich-Maria Remarque. Ma, con tutto il rispetto per
quel poeta, forse sarebbe saggio non dare eccessiva enfasi a quella cerimonia .
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