Voi credete alle dichiarazioni in tv di renzino ? Ai suoi proclami sulla ripresa, sull'Italia che sta ripartendo ? Non è la mia percezione, non è quello che vedo, né personalmente né nell'ambito delle mie conoscenze, professionali e personali.
Però l'ottimismo è importante, la fiducia pure, dicono, e io sono d'accordo. Solo che mi ricordo quando erano altri a cercare di sostenere questi sentimenti positivi per l'andamento economico ed erano trattati come venditori di tappeti usati. Alle solite, anche quando si tratta di bugie, il giudizio cambia se a dirle sono gli "amici", e allora saranno "bianche", oppure i nemici, che saranno a quel punto solo degli spudorati mentitori.
Sui numeri economici, e non, mi fido di più di Luca Ricolfi rispetto al presidente del consiglio, e per questo riporto un'analisi di respiro vasto ritengo ampiamente condivisibile.
Da notare che il professore di statistica e scienze sociali non boccia tout court le misure del governo, anzi arriva a sostenere che senza di esse i risultati assai modesti di questi ultimi due anni sarebbero stati peggiori, sulla falsariga dei bruttissimi che li hanno preceduti.
Se ci dobbiamo accontentare degli 0 virgola, non dobbiamo nemmeno dimenticare che il segno più è stato favorito, oltre (anzi, direi in misura ben maggiore) che dagli interventi contingenti del governo, da tre condizioni eccezionali come il prezzo del petrolio, il QE di Draghi, la svalutazione dell'euro. La concomitanza di simili fattori avrebbe dovuto portare ad una ripresa, europea e italiana, energica, che invece, soprattutto da noi, non si vede.
Non solo. Leggo che il calo del prezzo del petrolio, ai minimi da non so quanti lustri, comporta un risparmio sulla bolletta energetica di 10 miliardi. Non so se questa cifra è vera, però sicuramente un risparmio significativo ci deve essere. Eppure non serve né ad abbassare in modo incisivo i prezzi che a ridurre il debito. Il perché è il solito : la benzina scende poco perché ci pensa il governo ad assorbire le riduzione tramite le accise, e la spending review è una parolaccia.
Però, afferma Ricolfi, poteva essere peggio.
Quindi il bicchiere non è vuoto.
Ma nemmeno a metà.
LA SINDROME DI GALILEO
Ci sono due modi di giudicare una politica: confrontare quel
che succede oggi con quel che succedeva ieri, oppure confrontare quel che
succede oggi con quel che sarebbe successo se quella politica non fosse stata
messa in atto. Io ritengo che il giudizio sul governo attuale, che molto ha
fatto sul terreno del mercato del lavoro, cambi drasticamente a seconda del
criterio adottato. Se il confronto è con quel che succedeva prima, il bilancio
è ben magro, se non negativo. Nei quasi 2 anni che vanno dal bimestre
gennaio-febbraio 2014 (governo Letta) al bimestre settembre-ottobre 2015 l’occupazione
è aumentata di sole 287mila unità, mentre la percentuale di occupati dipendenti
precari (contratti a termine), che stando alle intenzioni dichiarate doveva
essere abbattuta, è salita dal 13.1% al 14.6% (massimo storico per l’Italia, ma
valore perfettamente in linea con la media europea). Se poi guardiamo al
brevissimo periodo, ossia alle tendenze degli ultimi 2 mesi, il quadro è ancor
meno rassicurante: l’occupazione totale ha perso 84mila posti di lavoro, e la
quota di precari è ancora salita.
Se restiamo su questo terreno, curiosamente prediletto da
Renzi e dai suoi paladini, è inevitabile che chi vuole difendere le politiche
governative sia costretto ad arrampicarsi sugli specchi, e finisca prigioniero
della sindrome di Galileo.
Che cos’è la sindrome di Galileo?
È la disperata ricerca del maggior numero possibile di
zero-virgola incoraggianti, allo scopo di poterli mettere in fila tutti quanti
e finalmente esclamare, di questa disgraziata locomotiva dell’economia
italiana, “eppur si muove!”.
Ma il confronto con ieri non è l’unico racconto possibile.
Se si vogliono mettere in evidenza le buone ragioni di questo governo, che pure
esistono accanto a quelle meno buone, non è questa la strada. Forse, dovremmo
avere più coraggio, o semplicemente essere più disincantati. È inutile e
fuorviante cercare nell’andamento dell’occupazione i segni del successo o
dell’insuccesso delle politiche messe in atto negli ultimi due anni.
La vera domanda è un’altra: senza quelle politiche, come
sarebbero andate le cose?
Quando si giudicano i nostri asfittici segnali di ripresa,
quel che non dovremmo mai dimenticare è l’impressionante cocktail di terapie
cui il paziente-Italia è stato sottoposto negli ultimi due anni: sul piano
internazionale, il triplice stimolo prezzo del petrolio, svalutazione
dell’euro, quantitative easing; sul piano interno il triplice stimolo decreto
Poletti (che ha liberalizzato i contratti a termine), decontribuzione,
contratto a tutele crescenti. Nel giro di pochi mesi le vele dell’economia
italiana sono state gonfiate da almeno 6 (3+3) misure ad alto impatto, e
ciononostante “il cavallo non beve”. Questo è il punto, questo è il nodo su cui
riflettere.
Nessuno è in grado di valutare con precisione gli effetti di
questo insieme di misure sul Pil e sull’occupazione, ma gli analisti sono
d’accordo nell’indicare in almeno 1 punto di Pil (c’è chi dice 2) l’impatto dei
tre stimoli esterni. Quanto ai 3 stimoli interni, ossia alle riforme del
mercato del lavoro, difficile pensare che le misure messe in atto, e in
particolare la decontribuzione fino a 8.060 euro l’anno, non abbiano avuto un
impatto positivo sull’occupazione e sul Pil. L’obiezione, semmai, potrebbe
essere che l'impatto degli sgravi per chi assume potrebbe essersi concentrato tutto
sul 2015, dato il carattere una tantum della misura adottata.
E allora? Allora, forse è venuto il momento di dirci la
verità, al di là di ogni retorica e di ogni propaganda. E la verità, temo, non
è che le politiche messe in atto dal duo Renzi-Padoan non siano state
ragionevoli ed efficaci, bensì che esse si sono innestate su un trend
strutturale di riduzione della base produttiva che, a quanto pare, non è ancora
terminato. Senza i 3 stimoli esterni e i 3 stimoli interni, molto
probabilmente, il Pil avrebbe perso quest’anno qualcosa come 1 o 2 punti
percentuali, e l’occupazione, anziché crescere poco, si sarebbe ulteriormente
contratta. Da questo punto di vista i modesti aumenti del Pil (+0.7%) e
dell’occupazione (circa 300mila posti di lavoro) registrati nel 2015 andrebbero
visti come un successo, non come uno scacco.
Se un’osservazione critica si può avanzare, sulle politiche
di questi due anni, non è che hanno prodotto scarsi risultati, ma che hanno
sottovalutato la ripidità della china che dovevano risalire, ovvero la gravità
del male che affligge l’Italia e, in misura meno drammatica, l’Europa nel suo
insieme. Al di là degli incitamenti e delle dichiarazioni di ottimismo,
probabilmente sincere, quel che resta intatta è un’altra sindrome italiana, qualche
volta attribuita a Tremonti ma in realtà ben piantata nella mentalità della
classe dirigente del nostro Paese: la credenza che la salvezza verrà
dall’esterno, quando la crisi sarà passata e l'economia mondiale avrà ripreso a
girare. È questa credenza, forse, che spiega certe timidezze riformiste, come
la rinuncia a una spending review incisiva, o il rinvio della riduzione
dell'imposta societaria.
Temo che una simile fiducia nella marea della ripresa, che
avrebbe il potere di sollevare tutte le barche, sia sostanzialmente infondata,
in quanto poggia, a sua volta, su una grave sottovalutazione del ritardo
dell’Italia rispetto alle altre economie avanzate. Negli ultimi vent’anni il
tasso di crescita dell’Italia è sempre stato inferiore a quello delle altre
società avanzate di circa 0.7-0.8 punti di Pil. Nulla fa pensare che quel
divario non ci sia più: nel 2015 l’Italia crescerà dello 0.7 o dello 0.8%,
giusto la metà di quanto, in media, cresceranno gli altri Paesi europei.
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