domenica 13 dicembre 2015

POCA PROVA, POCA PENA. COSI' I GIUDICI UCCIDONO IL RAGIONEVOLE DUBBIO

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Naturalmente, dopo la sentenza della Cassazione, che ha confermato, definitivamente (ma questa cosa ormai non è più vera, essendoci sempre la strada di Strasburgo, assolutamente ardua ma con possibile pronuncia contraria della Corte dei Diritti dell'Uomo ) , si sono scatenati i commenti.
Granitici, in alcuni casi ringhiosi, quelli dei colpevolisti (cui dovrebbe essere d'esempio la pacatezza dei genitori di Chiara) , sconcertati quelli degli innocentisti e dei garantisti.  Le seconde due categorie vanno tenute distinte. Io per esempio appartengo a questi ultimi, e non ho alcuna certezza dell'innocenza di Stasi. Dirò di più, lombrosianamente, a vederlo, direi che è colpevole (però Lombroso da tempo lunghissimo è stato superato), e anche io alcuni indizi della tesi accusatoria li trovo gravi ( ricordando peraltro che so quello che leggo sui giornali, quindi assai poco e con alte probabilità di inesattezze).  Però sono indizi, non prove. E pesa l'assenza di un movente accettabile ( uccidi la fidanzata perché ha scoperto che visiti siti porno ?? sai che strage in giro ??!!).  Comunque non penso che Alberto Stasi sia innocente. Però mi pesano, come un macigno, le due assoluzioni ottenuto nei primi due gradi di giudizio per non parlare delle parole di pietra scagliate dal Procuratore Generale della Cassazione tra cui queste :
"È successo che il giudice del rinvio abbia ritenuto che gli fosse stato affidato un imputato che dalla posizione di accertato innocente fosse passato alla posizione di presunto colpevole e ha ritenuto che il suo compito fosse quello di ricercare gli indizi a carico. Un modo di procedere non corretto, anzi in alcuni casi inaccettabile"
Di fronte a tutto questo, come non pensare che se c'è un caso al mondo in cui il ragionevole dubbio non può essere negato sia questo ? Due corti d'assise e il rappresentante dell'accusa in Cassazione negano che vi siano elementi sufficienti per condannare. Le prime due assolvono, il terzo chiede un nuovo processo. La Cassazione se ne impippa e condanna, confermando però una pena strana per un omicidio : 16 anni.  Per i penalisti è la conferma di un triste regola del nostro processo : se le prove sono deboli, da noi non si assolve - come pure detterebbe la Costituzione e le norme da essa derivanti - ma si mitiga la condanna.
Una doppia ingiustizia. 
In tutto questo, ho apprezzato il commento di Paolo Di Stefano (mentre quasi illegibile la cronaca della Fasano) che ha giustamente sottolineato e lodato la condotta composta, sotto le righe, sempre tenuta dai genitori di Chiara Poggi, e questo anche quando le pronunce furono non in linea con le loro convinzioni. 
Sicuramente persone molto più nobili degli ossessi che si spellano le mani per questa condanna, con il solo rimpianto che Stasi debba scontare solo 16 anni.
Brutta notizia per loro : saranno anche meno. 





  L’esempio dei genitori e il valore della pietà

 
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PAOLO DI STEFANO

Un fuoco d’artificio giudiziario per otto lunghi anni. Colpi di scena a ripetizione: sì, no, è stato lui, no, sì, ma... Nel marasma di controversie, di contraddizioni e di sorprese, nelle innumerevoli ricostruzioni televisive, dopo la lunga autoassoluzione di Stasi a «Matrix», nei rinvii ripetuti, nei pochi slanci di speranza e nell’immaginabile abisso di sfiducia, durante l’attesa del primo, del secondo, del terzo, del quarto e del quinto processo, i genitori di Chiara Poggi hanno mostrato al mondo quanto siano micidiali le armi insolite della pazienza discreta. Quasi un esercizio estenuante di disponibilità e insieme di autocontrollo, di comprensione e di dignità che si è aggiunto al dolore. «Accetto la sentenza — disse papà Giuseppe appena finito il primo processo —, non deve essere stato facile per il giudice, ma volevo ringraziare tutti, anche lui». E mamma Rita, allargando le braccia: «Continueremo a cercare la verità, è nostro dovere». Niente di più, niente di meno, per un’infinità di tempo durata otto anni. Quando Stasi esultava, abbracciando gli avvocati («Adesso tutti sanno che non sono stato io»), loro nulla, se non l’apparente (e quanto disperata) imperturbabilità dell’attesa: «Non ci arrendiamo, non c’è altra scelta». Mai un aggettivo contro la giustizia o l’imputato. Ieri, l’ultimo atto, il colpevole c’è e Chiara ha avuto la sua tardiva giustizia, se di giustizia si può davvero parlare. Ma la compostezza dell’operaio della Lomellina e dell’impiegata comunale non è cambiata. Nel pomeriggio, dopo la sentenza, sono andati a visitare Chiara sulla stessa tomba in cui la signora Rita una mattina trovò un bigliettino che, rivolto a Stasi, esprimeva le certezze di un anonimo. Quasi una minaccia per l’aldilà: «Se la giustizia terrena ti assolve, quella divina no, e Chiara da lassù lo sa». Lì ieri i coniugi Poggi hanno sussurrato la prima e definitiva frase appena fuori dal consueto, finalmente con un’espressione sulle labbra che somigliava a un sorriso: «Chiara, sei stata brava, ce l’hai fatta...», perché non hanno mai cessato di credere che questa battaglia l’avrebbe vinta lei: Chiara. Il loro compito era accompagnarla restando nell’ombra. E poi un pensiero pietoso, quello di sempre, alla mamma dell’omicida (rimasta sola, dopo la morte del marito Nicola): «Le famiglie colpite sono due». Giuseppe e Rita hanno fatto della pietà la loro resistenza e la loro vendetta. Balzac ha scritto che l’odio è tonico, fa vivere, mentre la pietà rende ancora più debole la nostra debolezza. Non poteva conoscere il papà e la mamma di Chiara Poggi.

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