Uscita la sentenza di condanna Alberto Stasi si è immediatamente costituito ed è già in carcere.
Strano...non è fuggito. Non lo ha fatto durante le indagini, non lo ha fatto dopo la sentenza di annullamento delle sentenze di assoluzione (due...), non è fuggito nemmeno dopo la condanna nel giudizio di rinvio.
Dando ragione al giudice che a suo tempo lo scarcerò - figurati se la procura non avesse richiesto l'arresto, trovando in un primo tempo chi gli desse retta - applicando il principio fondamentale che gli imputati i processi li passano da liberi, e la libertà si perde solo quando la sentenza è definitiva.
Certo, per i giustizialisti sono stati otto anni di patimenti, ma adesso saranno finalmente contenti.
Oddio, c'è l' "incubo" di Strasburgo...ma è strada impervia e lunga, stiano sereni per i prommi Natali.
«Non è giusto». Poi le lacrime Alberto nella cella con altri
due
L’arrivo con lo zaino in spalla accompagnato dalla madre.
«Era provato ma sereno»
Sembra di vederlo, Alberto Stasi. Con la sua borsa in
spalla, stretto nel solito giaccone scuro mentre varca il portone del carcere
di Bollate. L’hanno chiamato da Roma i suoi legali, ormai più amici che
avvocati: «Hanno confermato, 16 anni» era l’essenza delle loro parole. Non ha
importanza che abbiano detto altro, lui ha sentito soltanto quello: condanna,
16 anni. E il fiato trattenuto fino a quel momento è diventato un pianto
incontenibile, soltanto lacrime, nemmeno una parola.
Lacrime senza ritegno e la disperazione di chi ha perduto la
partita contro il futuro. Alberto l’aveva già spiegato quando per la prima
volta la Cassazione rimandò in appello il processo dopo due assoluzioni: «Quel
giorno ho pianto moltissimo e non mi vergogno di dirlo perché sono convinto che
l’uomo che non piange mai non sia un uomo ma una macchina. È stato un giorno
nerissimo, un incubo che ha provato ad annientarmi» aveva detto.
Annientato, appunto. Così è arrivato in cella ieri
pomeriggio. Sotto choc, assente.
Chi ha potuto avvicinarlo lo ha visto scuotere la testa, gli
ha sentito dire «non è giusto», come ripete da quando finì sott’inchiesta, ad
agosto di otto anni fa. Visto dagli occhi di un ragazzo che si dice da sempre
innocente nessun giorno dev’essere sembrato più ingiusto di ieri. Eppure
l’ipotesi che finisse così non gli è certo piovuta addosso all’improvviso.
L’aveva messa nel conto, ne aveva ragionato con gli avvocati e gli amici
(quelli storici non l’hanno mai mollato), l’aveva considerata assieme a sua
madre Elisabetta. Era l’angoscia delle angosce anche quando c’era ancora suo
padre Nicola, morto per una malattia a fine 2013 e fino a quel punto sempre al
fianco del figlio nelle mille tappe giudiziarie («Mio padre ha cominciato a
morire il giorno in cui la Cassazione ha deciso di riaprire questo processo»
aveva commentato poi Alberto).
Proprio perché una condanna definitiva non si poteva
escludere, la scelta del carcere non è stata né improvvisata né casuale.
Bollate è il penitenziario modello, il luogo in cui la vita di un detenuto è un
po’ più vita di quella che altri reclusi vivono altrove. I suoi legali avevano
annunciato: «Se dovessero condannarlo si consegnerà lui stesso». E lui l’ha
fatto poche ore dopo la sentenza, nel posto migliore possibile e non lontano da
casa, cioè da sua madre.
«Quand’è arrivato sembrava molto provato ma tutto sommato era
tranquillo» dice il direttore, Massimo Parisi. «Ha avuto un colloquio con il
nostro responsabile educativo e divide la cella con altri due detenuti». Niente
isolamento, perché nessun giudice lo ha prescritto e perché è sempre meglio non
lasciare da soli i nuovi arrivati, soprattutto se non sono mai stati in
carcere. Alberto per la verità aveva passato quattro giorni in cella a
Vigevano, dal 24 al 28 settembre del 2007. Ma il giudice alla fine si convinse
che non c’erano motivi per tenerlo dentro. Era il suo primo giro sull’altalena
della giustizia. Scarcerato, assolto, poi di nuovo assolto, poi processo
rifatto e condanna, fino a ieri, al ricorso bocciato. Condanna definitiva.
Aspettando la sentenza, il suo avvocato e amico Fabio Giarda
raccontava di averlo visto l’ultima volta mercoledì: «Avevo un processo a Bari
e dovevo partire, poi sarei arrivato direttamente qui a Roma. Così l’ho
incontrato in studio e ci siamo salutati pensando tutti e due che per lui
quello poteva anche essere l’ultimo saluto da persona libera...».
A sentenza letta, mentre i giudici erano ancora in aula,
Fabio ha imboccato l’uscita e ha provato a tirare dritto. Nessuna voglia di
commentare. Ma il muro di telecamere era impossibile da bypassare, come le
emozioni del momento. E alla fine ha parlato la collera: «Una cosa
allucinante», una «sentenza completamente illogica». «È una pena che non sta né
in cielo né in terra e, come ha detto il procuratore generale, se uno ha fatto
una cosa del genere deve avere l’ergastolo». Alberto ha avuto 16 anni, più otto
anni e quattro mesi vissuti sotto accusa. Anche quando è stato assolto.
Giusi Fasano
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