Non mi dispiace il premier che in Europa dice ad alta voce qualche verità evidente e ovviamente scomoda sullo stato della "Disunione Europea", definizione che trovo assolutamente appropriata e che ho letto in giro.
Peccato però, come osserva correttamente Paolo Valentino del Corsera nell'editoriale che propongo di seguito, che l' Italia, nel muovere obiezioni, dica cose giuste da una posizione non esattamente priva di censure altrui. Anzi.
Il debito è quello che è, e Draghi, che pure ci sta dando una grossa mano, tenendo a bada gli spread e continuando a finanziarci - noi come altri - lamenta come il tempo comprato dalla BCE sia speso male da diversi paesi e sicuramente tra questi c'è il nostro.
Il problema grande è la mancanza di alternative credibili alla contestata leadership tedesca.
E' vero, la Germania s'impanca troppo spesso a prima della classe, curando molto bene gli affari propri, e l'esempio del salvataggio della banche tedesche - al tempo molto esposte nel finanziare il debito greco, senza contare l'aiuto dato alle loro di "popolari" - nonché la severità per i soli giorni dispari con la Russia (laddove nei pari Berlino fa affari lucrosi con Mosca) non sono buoni esempi di coerenza da parte di chi si erge a maestrino.
Però purtroppo nel dire il Re è nudo, dovremmo avere in primo luogo qualche panno noi, e così non è, in secondo, come giustamente rileva Valentino, avere un piano B.
E anche quello manca.
Le insidie di una linea forte
di Paolo Valentino
Alla madre di tutti i Consigli europei, Matteo Renzi ha scelto di fare l’irregolare. Nel vertice che chiude un anno vissuto pericolosamente, con l’Europa squassata da crisi violente che arrivano a minarne le ragioni esistenziali, il presidente del Consiglio sposa una linea di attacco e recriminazione verso Bruxelles e la Germania di Angela Merkel.
Ne ha parecchie, e alcune anche sacrosante, di ragioni per puntare i piedi, il premier italiano. Ha ragione ad accusare l’Unione Europea di essere sempre assente quando si tratta di trovare risposte comuni a sfide drammatiche come quella dell’immigrazione, salvo a ritrovarsi occhiuta e pedante nel valutare la conformità dei conti o nel denunciare la mancata registrazione dei disperati arrivati sul nostro territorio, ai quali l’Italia, da sola, ha salvato la vita. Ed è giusto, Renzi lo ha fatto anche ieri al pre-vertice dei socialisti europei, smascherare la contraddizione tra le sanzioni a Mosca per punirne le azioni in Ucraina e il raddoppio del Nord Stream, con cui Germania, Francia e Olanda vogliono assicurarsi ancora più gas russo aggirando proprio l’Ucraina. Ma la scelta di alzare la voce contro l’Europa guidata da un solo Paese e orientata nei fatti prevalentemente dalle politiche dell’austerità, è densa di rischi e insidie che il nostro capo del governo non deve sottovalutare.
La situazione nella quale si trova il nostro Paese all’interno dell’Unione Europea è oggettivamente difficile.
Siamo sotto tiro sulla flessibilità di bilancio, sugli hot spot per i rifugiati che ancora non abbiamo aperto, sul salvataggio di alcune banche, sul caso Ilva dove sarebbe imminente una nuova procedura d’infrazione. E il sospetto, neppure tanto velato, di Matteo Renzi è che a ispirare una linea così rigorosa verso l’Italia sia proprio la cancelliera Merkel.
Da qui la scelta di sparigliare, dare un scossone polemico, chiamare le cose col loro nome. Da qui la scelta di mandare a Bruxelles un nuovo ambasciatore, meno conciliante ed eurocentrico di Stefano Sannino. Da qui la decisione di dare un segnale ai nostri partner più tradizionali e naturali, Germania e Francia, offrendo una sponda addirittura al Regno Unito di David Cameron, in nome della semplificazione burocratica dell’Unione.
Già, ma poi? È questo il dilemma che non sembra contemplato nell’atteggiamento del presidente del Consiglio. Può l’Italia isolarsi in Europa, men che meno prescindere da questa? Una posizione di contrasto è legittima, tanto più se dettata da buoni motivi. Ma a condizione di sapere che per gestirla con successo occorre avere tutte le carte in regola, dai conti agli hot spot. Altrimenti il prezzo da pagare potrebbe essere l’esclusione dai tavoli dove si costruisce il consenso, con pazienza e alleanze intelligenti. Detto altrimenti, irrigidirsi può far segnare qualche punto a nostro favore nell’immediato, vedi aver evitato un rinnovo automatico delle sanzioni a Mosca, ma rischia di danneggiarci e marginalizzarci nel lungo periodo, in assenza di una strategia di ampio respiro di cui al momento non c’è traccia.
Tanto più nelle nostre condizioni, che ci vedono spesso fare pressione su Bruxelles: non solo sulla flessibilità e gli aiuti all’Ilva, ma anche sul regolamento per il made in che ancora ci viene negato. Più in generale, abbiamo una risposta, per esempio, a domande del tipo: se non è insieme alla Germania che vogliamo avere un posto di rilievo in Europa, con chi vogliamo e possiamo ottenerlo? Qualcuno evoca l’esempio di Margaret Thatcher, che all’inizio degli Anni Ottanta, al grido di «Voglio indietro i miei soldi» vinse una storica battaglia con Bruxelles ottenendo il famoso rimborso di parte del contributo britannico al bilancio comune. Certo, ma il Regno Unito presentò un caso puntuale e documentato sull’incongruenza dell’assetto finanziario di allora. E soprattutto, negli stessi anni, ministri e commissari inglesi lavoravano con Jacques Delors al libro bianco sul mercato unico, uno dei più riusciti progetti comunitari.
Fa bene il presidente del Consiglio ad alzare la voce in un’Europa troppo facile preda di pulsioni egoistiche e incline a doppi standard. Ma senza un progetto e un’idea forte, il suo atto d’accusa rischia di esprimere una debolezza.
Paolo Valentino
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