I numeri raccolti e commentati da Luca Ricolfi non costituiscono motivo di serenità. Il grande attivismo renziano non produce, al momento, effetti granché positivi sul lato sul quale più il suo governo si va sbattendo - consumi e occupazione - e questo nonostante il sostanziale accantonamento del problema dei conti pubblici : la spesa aumenta, il debito pure e questo nonostante che santo Draghi ci tenga ancora a bada il costo degli interessi sui titoli di Stato.
Il momento in cui questa cosa dovesse attenuarsi, o peggio, il timore che si torni rapidamente ai momenti drammatici - comunque venduti come tali - di fine 2011 è assolutamente fondato.
Se la memoria non mi inganna, il problema Italia era legato principalmente - ovviamente non solo - all'enormità del debito, pari al 120% del PIL, accompagnato da una spesa pubblica altissima e sempre crescente, rincorsa vanamente da una deprimente - per l'economia - pressione fiscale, anch'essa in costante aumento.
Bene, anzi male, tutti questi parametri negativi sono tutti lì, a distanza di 4 anni e tre governi non gravati dalla funesta presenza del Cavaliere nero.
Il debito, nonostante Draghi e il suo effetto salvifico sugli interessi, è stabile al 130%, la spesa pubblica pure aumenta, ché la parola Spending Review è altamente indigesta, e non per l'inglese, a tutti gli inquilini di Palazzo Chigi, e l'attuale non fa eccezione, e le tasse non aumentano ma per il momento, con lo spettro di una IVA al 24% (??!!) nel 2017 se i conti non migliorano.
Ecco, nel leggere che la spesa è cresciuta dell' 11% (!!) e le entrate del 4, il pensiero, non grato, mi corre al discorso del nostro capo dello stato la sera di capodanno, alla fola indigeribile delle tasse che diminuiranno quando saranno pagate da tutti.
Caro - poco - Presidente, lo Stato, in qualche modo, ruspa sempre più soldi dalle tasse, e la spesa non scende MAI.
Se fossero presi più soldi, ne sarebbero semplicemente spesi di più.
Questa è una delle poche certezze economiche del nostro paese.
La spinta delle famiglie e il peso del debito
Come stanno andando i conti pubblici dell’Italia?
Una risposta abbastanza chiara l’avremo fra un paio di mesi,
quando l’Istat comunicherà i dati dell’ultimo trimestre del 2015. Per ora quel
che si può fare è accontentarsi dei dati Istat dei primi 3 trimestri dell’anno
(che si riferiscono a tutta
In entrambi i casi il quadro non è esaltante. Se ci
atteniamo ai dati Banca d’Italia, che sono i più aggiornati, le entrate dei
primi 11 mesi del 2015 risultano in aumento di 14,3 miliardi (+4,2%) rispetto
al medesimo periodo del 2014, mentre la spesa corrente ha avuto un’impennata di
44 miliardi (+11,0%). Se si considera che l’inflazione nel 2015 è stata
prossima a zero, non possiamo certo spiegare questi aumenti con l’aumento dei
prezzi.
Non ci resta che sperare che il dato di dicembre abbia a capovolgere, o
almeno ad attenuare, queste tendenze.
Spostandosi sui dati ufficiali Istat sull’intera Pubblica
Amministrazione le cose migliorano un po’. Se confrontiamo gli ultimi 4
trimestri del governo Renzi con gli ultimi 4 trimestri del governo Letta quel
che si osserva è un leggero aumento del peso di tasse e spese, pari a circa lo
0,6% del Pil. Si potrebbe obiettare che la contabilità ufficiale tratta il
bonus da 80 euro come una spesa, anziché come una riduzione della pressione
fiscale. E tuttavia se dalla contabilità “europea” (bonus=maggiore spesa)
passiamo alla contabilità “governativa” (bonus=minori tasse) il quadro cambia
di segno ma resta inalterato nel suo sostanziale immobilismo: quel piccolo
aumento di entrate e spese, pari allo 0,6% del Pil, si tramuta in una leggera
diminuzione, anch’essa dello 0,6% del Pil. Insomma, possiamo discutere
all’infinito se sia più corretta la contabilità europea o quella governativa,
ma resta il fatto che gli epocali cambiamenti più volte proclamati, spending
review e abbattimento della pressione fiscale, per ora non hanno portato ad
alcuna sostanziale variazione del grado di invadenza dello Stato nell’economia.
E l’avanzo primario, ovvero la differenza fra entrate e
spese al netto degli interessi sul debito? Anche qui il quadro non è
drammatico, ma resta sostanzialmente negativo. L’avanzo primario degli ultimi
quattro trimestri è stato pari all’1,5% del prodotto interno lordo, ma era
prossimo al 2% sia in era Letta sia in era Monti, il che significa che non
stiamo usando la ripresa per risanare i conti pubblici ma, tutto al contrario,
stiamo chiedendo ai conti pubblici di sostenere la ripresa.
Tenuto conto di tutte queste criticità, e di un’inflazione
che resiste ad ogni tentativo di rianimarla, sembra difficile dare molto
credito alla promessa, contenuta nella Legge di stabilità, di una discesa del
rapporto debito/Pil nel 2016. Se le cose continueranno così, non ci sarebbe da
stupirsi che quest’anno il nostro debito pubblico toccasse un nuovo massimo
storico.
Poiché i dati che ho brevemente richiamato non possono non
essere noti al governo, e in particolare al suo ministro dell’Economia,
verrebbe spontaneo chiedersi: quali sono le ragioni di una simile politica,
così poco attenta all’equilibrio dei conti pubblici?
A me pare che tali ragioni siano sostanzialmente due, una
buona e l’altra meno buona. La ragione buona è che, per ora, una simile
politica, sostanzialmente espansiva e indifferente al debito, qualche frutto lo
sta dando. La modestia dei risultati occupazionali ottenuti con la
decontribuzione e con il Jobs Act non può nascondere il fatto che, sia pure
lentamente, le famiglie stanno rialzando la testa. A testimoniarlo non sono
tanto e solo i consumi, quanto l’evoluzione dei bilanci familiari. Le famiglie
in difficoltà, costrette a fare debiti o attingere dalle riserve, erano quasi
il 35% nel corso del 2013, oggi sono scese al di sotto del 25%: sempre
tantissime, ma molte di meno di un paio di anni fa.
La ragione meno buona è che, a quanto capisco, la nostra
politica economica non teme il rialzare la testa dei mercati; non teme, detto
altrimenti, che i timori sullo stato dei nostri conti pubblici possano riaprire
una stagione di tassi di interesse crescenti, come avvenne nel 2011-2012.
Questa ragione mi pare dubbia per due motivi distinti. Il primo è che i mercati
sono “animali sensibili” e nessuno, né politico né economista, può sapere in
anticipo se l’Europa andrà di nuovo incontro a periodi di turbolenza come
quelli più volte sperimentati durante la lunga crisi di questi anni; questa
sola circostanza dovrebbe bastare a suggerire una certa prudenza nella gestione
dei conti pubblici.
Il secondo motivo che mi lascia perplesso è che un certo
allarme sui mercati è comunque già in atto da qualche tempo, anche se non è
visibile e conclamato come in altri momenti. Se anziché guardare ai rendimenti
medi dei titoli di stato dell’Eurozona guardiamo alla loro variabilità, è
facile rendersi conto che l’era della tranquillità è finita da tempo.
Da giugno del 2015 la tendenza dei mercati è stata
sistematicamente alla differenziazione dei rendimenti, con varie significative
accelerazioni nel corso degli ultimi due mesi. C’è solo da augurarsi che, alla
lunga, i vantaggi della politica espansiva intrapresa negli ultimi tempi
prevalgano sui rischi che, inevitabilmente, ogni politica espansiva attuata da
uno Stato oberato dai debiti porta con sé.
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