lunedì 25 gennaio 2016

ENTRATE PIU' 4,2%, SPESA PUBBLICA PIU' 11%. A RIPROVA CHE LA TASSE NON DIMINUIRANNO MAI. ALTRO CHE LA FOLA DI MATTARELLA



I numeri raccolti e commentati da Luca Ricolfi non costituiscono motivo di serenità.  Il grande attivismo renziano non produce, al momento, effetti granché positivi sul lato sul quale più il suo governo si va sbattendo - consumi e occupazione - e questo nonostante il sostanziale accantonamento del problema dei conti pubblici : la spesa aumenta, il debito pure e questo nonostante che santo Draghi ci tenga ancora a bada il costo degli interessi sui titoli di Stato.
Il momento in cui questa cosa dovesse attenuarsi, o peggio, il timore che si torni rapidamente ai momenti drammatici - comunque venduti come tali - di fine 2011 è assolutamente fondato.
Se la memoria non mi inganna, il problema Italia era legato principalmente - ovviamente non solo - all'enormità del debito, pari al 120% del PIL, accompagnato da una spesa pubblica altissima e sempre crescente, rincorsa vanamente da una deprimente - per l'economia - pressione fiscale, anch'essa in costante aumento.
Bene, anzi male, tutti questi parametri negativi sono tutti lì, a distanza di 4 anni e tre governi non gravati dalla funesta presenza del Cavaliere nero.
Il debito, nonostante Draghi e il suo effetto salvifico sugli interessi, è stabile al 130%, la spesa pubblica pure aumenta, ché la parola Spending Review è altamente indigesta, e non per l'inglese, a tutti gli inquilini di Palazzo Chigi, e l'attuale non fa eccezione, e le tasse non aumentano ma per il momento, con lo spettro di una  IVA al 24% (??!!) nel 2017 se i conti non migliorano.
Ecco, nel leggere che la spesa è cresciuta dell' 11% (!!) e le entrate del 4, il pensiero, non grato, mi corre al discorso del nostro capo dello stato la sera di capodanno, alla fola indigeribile delle tasse che diminuiranno quando saranno pagate da tutti.
Caro - poco - Presidente, lo Stato, in qualche modo, ruspa sempre più soldi dalle tasse, e la spesa non scende MAI.
Se fossero presi più soldi, ne sarebbero semplicemente spesi di più.
Questa è una delle poche certezze economiche del nostro paese.



La spinta delle famiglie e il peso del debito

 

Come stanno andando i conti pubblici dell’Italia?
Una risposta abbastanza chiara l’avremo fra un paio di mesi, quando l’Istat comunicherà i dati dell’ultimo trimestre del 2015. Per ora quel che si può fare è accontentarsi dei dati Istat dei primi 3 trimestri dell’anno (che si riferiscono a tutta la Pubblica Amministrazione), oppure basarsi sui dati mensili della Banca d’Italia, che arrivano fino a novembre scorso ma si riferiscono solo al bilancio dello Stato.

In entrambi i casi il quadro non è esaltante. Se ci atteniamo ai dati Banca d’Italia, che sono i più aggiornati, le entrate dei primi 11 mesi del 2015 risultano in aumento di 14,3 miliardi (+4,2%) rispetto al medesimo periodo del 2014, mentre la spesa corrente ha avuto un’impennata di 44 miliardi (+11,0%). Se si considera che l’inflazione nel 2015 è stata prossima a zero, non possiamo certo spiegare questi aumenti con l’aumento dei prezzi.
Non ci resta che sperare che il dato di dicembre abbia a capovolgere, o almeno ad attenuare, queste tendenze.

Spostandosi sui dati ufficiali Istat sull’intera Pubblica Amministrazione le cose migliorano un po’. Se confrontiamo gli ultimi 4 trimestri del governo Renzi con gli ultimi 4 trimestri del governo Letta quel che si osserva è un leggero aumento del peso di tasse e spese, pari a circa lo 0,6% del Pil. Si potrebbe obiettare che la contabilità ufficiale tratta il bonus da 80 euro come una spesa, anziché come una riduzione della pressione fiscale. E tuttavia se dalla contabilità “europea” (bonus=maggiore spesa) passiamo alla contabilità “governativa” (bonus=minori tasse) il quadro cambia di segno ma resta inalterato nel suo sostanziale immobilismo: quel piccolo aumento di entrate e spese, pari allo 0,6% del Pil, si tramuta in una leggera diminuzione, anch’essa dello 0,6% del Pil. Insomma, possiamo discutere all’infinito se sia più corretta la contabilità europea o quella governativa, ma resta il fatto che gli epocali cambiamenti più volte proclamati, spending review e abbattimento della pressione fiscale, per ora non hanno portato ad alcuna sostanziale variazione del grado di invadenza dello Stato nell’economia.

E l’avanzo primario, ovvero la differenza fra entrate e spese al netto degli interessi sul debito? Anche qui il quadro non è drammatico, ma resta sostanzialmente negativo. L’avanzo primario degli ultimi quattro trimestri è stato pari all’1,5% del prodotto interno lordo, ma era prossimo al 2% sia in era Letta sia in era Monti, il che significa che non stiamo usando la ripresa per risanare i conti pubblici ma, tutto al contrario, stiamo chiedendo ai conti pubblici di sostenere la ripresa.

Tenuto conto di tutte queste criticità, e di un’inflazione che resiste ad ogni tentativo di rianimarla, sembra difficile dare molto credito alla promessa, contenuta nella Legge di stabilità, di una discesa del rapporto debito/Pil nel 2016. Se le cose continueranno così, non ci sarebbe da stupirsi che quest’anno il nostro debito pubblico toccasse un nuovo massimo storico.

Poiché i dati che ho brevemente richiamato non possono non essere noti al governo, e in particolare al suo ministro dell’Economia, verrebbe spontaneo chiedersi: quali sono le ragioni di una simile politica, così poco attenta all’equilibrio dei conti pubblici?

A me pare che tali ragioni siano sostanzialmente due, una buona e l’altra meno buona. La ragione buona è che, per ora, una simile politica, sostanzialmente espansiva e indifferente al debito, qualche frutto lo sta dando. La modestia dei risultati occupazionali ottenuti con la decontribuzione e con il Jobs Act non può nascondere il fatto che, sia pure lentamente, le famiglie stanno rialzando la testa. A testimoniarlo non sono tanto e solo i consumi, quanto l’evoluzione dei bilanci familiari. Le famiglie in difficoltà, costrette a fare debiti o attingere dalle riserve, erano quasi il 35% nel corso del 2013, oggi sono scese al di sotto del 25%: sempre tantissime, ma molte di meno di un paio di anni fa.

La ragione meno buona è che, a quanto capisco, la nostra politica economica non teme il rialzare la testa dei mercati; non teme, detto altrimenti, che i timori sullo stato dei nostri conti pubblici possano riaprire una stagione di tassi di interesse crescenti, come avvenne nel 2011-2012. Questa ragione mi pare dubbia per due motivi distinti. Il primo è che i mercati sono “animali sensibili” e nessuno, né politico né economista, può sapere in anticipo se l’Europa andrà di nuovo incontro a periodi di turbolenza come quelli più volte sperimentati durante la lunga crisi di questi anni; questa sola circostanza dovrebbe bastare a suggerire una certa prudenza nella gestione dei conti pubblici.

Il secondo motivo che mi lascia perplesso è che un certo allarme sui mercati è comunque già in atto da qualche tempo, anche se non è visibile e conclamato come in altri momenti. Se anziché guardare ai rendimenti medi dei titoli di stato dell’Eurozona guardiamo alla loro variabilità, è facile rendersi conto che l’era della tranquillità è finita da tempo.

Da giugno del 2015 la tendenza dei mercati è stata sistematicamente alla differenziazione dei rendimenti, con varie significative accelerazioni nel corso degli ultimi due mesi. C’è solo da augurarsi che, alla lunga, i vantaggi della politica espansiva intrapresa negli ultimi tempi prevalgano sui rischi che, inevitabilmente, ogni politica espansiva attuata da uno Stato oberato dai debiti porta con sé.

 

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