Ferruccio Parri e Antonio Di Pietro. Basta questo paragone a Galli della Loggia per spiegare come e perché la Prima Repubblica, con tutti i suoi progressivi e crescenti difetti, sarà nella storia sempre qualcosa di infinitamente meglio - o meno peggio se preferite - della Seconda.
Da tempo il professore e politologo lamenta la mancanza di una "visione" della società che si vorrebbe realizzare, senza limitarsi al sostanziale galleggiamento del presente, con una difesa, sempre più affannosa quando non inefficace, dei privilegi acquisiti in un (troppo) gaudente passato.
Renzi, in questo, non si discosta dai suoi predecessori, al di là dei suoi proclami di riforme epocali (??!!) fatte, e i cui miracolosi risultati nessuno vede.
Lo stesso Jobs act, che pure ha dei meriti, è lungi da quella rivoluzione copernicana evocata. Figuriamoci altre cose, come l'Italicum, che, così com'è, è una legge sbagliata e anche potenzialmente pericolosa per il corretto funzionamento del sistema democratico.
Comunque, la riflessione di Galli della Loggia è di più ampio respiro e credo meriti una attenta lettura
L’egemonia ha bisogno di un’idea
Al di là della «rottamazione», il presidente del
Consiglio non sembra riuscire ad essere
protagonista di alcuna vera rottura.
di Ernesto Galli della Loggia
In molti suppongono che Matteo Renzi, ormai padrone assoluto della Rai, abbia in animo di usare i potenti mezzi di Viale Mazzini per elaborare e diffondere il «renzismo». Non a caso, e sempre per muoversi nella stessa direzione, osservano altri, già da qualche tempo egli ha deciso di fondare un think tank con sede a Bruxelles, di nome «Volta». E più d’uno — per esempio il direttore del Foglio Claudio Cerasa — aggiunge che tutto ciò farebbe pensare al desiderio da parte del premier di costruire una forte prospettiva ideologica considerata necessaria al consolidamento della sua leadership: con l’intento, addirittura, di trasformare il «renzismo» in un’egemonia culturale.
Magari, mi verrebbe da dire (naturalmente pensando a
un’accezione non prescrittivo-autoritaria del termine egemonia). Magari oggi ci
fosse in Italia chi si proponesse un disegno così ambizioso. Cioè di tentare di
costruire un consenso di ampie dimensioni intorno a una visione per così dire
alta e forte del futuro del Paese, essendo inoltre capace di mobilitare a tal
fine le necessarie risorse culturali e intellettuali. Ripeto: magari! Una
collettività, infatti, non può rinunciare per un tempo troppo lungo — come
invece mi sembra stia facendo l’Italia — a guardare lontano, ad avere dei
valori che la orientino nel suo cammino, ad avere un’idea di sé e del suo ruolo
nel mondo.
E la politica, dal canto suo, o è tutto questo, o è
capace di essere il motore di tutto questo, o è routine, pura amministrazione.
Il che forse potrà pure andare bene quando tutto va bene. No di certo, però, in
tempi come quelli che viviamo. Non mi sembra tuttavia un’impresa affatto
facile, per Renzi, consolidare ideologicamente la propria leadership o
addirittura costruire un’egemonia culturale. Dirò di più: mi sembra un’impresa
impossibile.
Avere dei buoni propositi non basta, infatti. Non
basta — come è sua abitudine — profondersi in esortazioni a base di «L’Italia è
un grande Paese», «Possiamo farcela», «Non prendiamo lezioni da nessuno». Non
basta neppure avere delle idee, anche delle buone idee e magari arrivare
perfino a realizzarne qualcuna. È necessario avere una idea: e mantenervisi
fedele. Vale a dire avere un traguardo complessivo che faccia tutt’uno con un
principio ispiratore di carattere generale. È necessario proporre al Paese non
dirò un destino ma almeno una vocazione. Raffigurarsi per esso un percorso
esemplare, e in funzione di questo essere capaci di animare le forze presenti
ma nascoste, di indovinare quelle nuove da suscitare. Tutto questo dovrebbe
oggi fare la politica in Italia per incarnare un progetto.
Ma le riesce impossibile, perche la Seconda Repubblica
— e non è certo colpa di Renzi — ha alle spalle il nulla. Laddove invece per
immaginarsi un’identità e un futuro, e per raccogliere le energie capaci di
conseguirli, un corpo politico deve avere alle spalle qualcosa. Deve avere
quella che oggi si dice una narrazione, cioè un racconto del passato che ne
giustifichi in modo forte il presente e si apra verso l’avvenire. Così come per
l’appunto furono, pur con i limiti e le contraddizioni che sappiamo,
l’antifascismo e la
Resistenza per la Prima Repubblica.
La Seconda ha
invece alle sue spalle che cosa? Mani Pulite. Vale a dire un’inchiesta
giudiziaria necessaria ma costellata di ambiguità. Non le lotte ma gli avvisi
di garanzia. Al posto di Ferruccio Parri, Antonio Di Pietro: è facile capire la
differenza.
Il vuoto su cui galleggia la Seconda Repubblica
spiega bene la scelta fatta dal presidente del Consiglio circa coloro che
dovranno in vario modo gestire il «Volta». Amministratori delegati e dirigenti
di grandi imprese (da Lazard ad Autostrade), scrittori, docenti di governance e
di public affairs, direttori di musei, esperti di innovation, responsabili di
organizzazioni umanitarie, economisti, un paio di professori di diritto e di
scienza politica. Per una buona metà inglesi, americani, spagnoli, francesi,
tedeschi: i quali si può presumere che sappiano dell’Italia quanto io so del
Michigan. Insomma un think tank all’insegna dell’eterogeneità e del più
provinciale internazionalismo, infarcito di «grossi nomi» (o presunti tali)
messi lì, si direbbe, al solo, italianissimo scopo, di «far bella figura». E
che quindi servirà a poco o nulla.
Resterà dunque il vuoto della Seconda Repubblica:
vuoto di ideali politici, di futuro, e di una prospettiva per la compagine
nazionale. E il presidente del Consiglio resterà privo di quel progetto
culturale che viene attribuito alle sue intenzioni. Per il quale, lungi dal
servire una cosa come il «Volta», servirebbero semmai dei veri gruppi
dirigenti.
Cioè quegli insiemi coesi di personalità, di competenze e di intelligenze, con il gusto per gli affari pubblici, che per solito o nascono in un Paese in seguito a una frattura storica (una rivoluzione, un drammatico cambio di regime), e dunque con una prospettiva fortemente innovativa, o, all’opposto, si formano intorno a una tradizione. Intorno cioè al rapporto con un retaggio culturale, incarnato da un ambiente familiare, da un’appartenenza sociale, da un’istituzione, spesso collocato in un luogo specifico, in un paesaggio, e generalmente tenuto vivo da un sistema d’istruzione adeguato.
Ma Matteo Renzi non rappresenta certo alcuna
tradizione né, al di là della «rottamazione», sembra riuscire ad essere
protagonista di alcuna vera rottura. Il «renzismo» dunque resterà al massimo
una strategia di governo ( e di sottogoverno) di successo per un Paese fermo, in
attesa timorosa di ciò che gli potrà capitare domani.
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