mercoledì 2 marzo 2016

"CHI MI HA MESSO AL MONDO ?"

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Lo scandalo - nel senso di notizia rumorosa e discussa - vendoliano ha "partorito", tra le altre cose, la lunga riflessione di Elisa Calessi, brava giornalista che seguivo su Libero, che mi ha aiutato a vedere più chiaramente nei dubbi che su queste questioni si alternano, senza peraltro coinvolgermi troppo, non essendo un appassionato né di famiglie, né di amore, né di minori.
Francamente, le considerazioni della Calessi mi sembrano ragionevoli, e ben rispondono al mantra dell'obnubilato occidente nostrano : l'interesse superiore dei bambini.
Ecco, forse Vendola e compagno hanno soddisfatto il loro, più dubitabile che coincida con quello del bambino messo al mondo in questo modo, e che prima o poi vorrà sapere qualcosa di sua madre...
Ma non è l'unica obiezione.
Buona Lettura


Vendola, un bambino e alcune domande

pancioneMi sono chiesta, in questi giorni, se scrivere o no attorno alla vicenda del figlio di Nichi Vendola e del compagno Ed. Vi confesso che ero per il “no”. Il dibattito che si è scatenato è la solita canea, con i soliti steccati politici. Soprattutto, essendo state demolite alcune evidenze, il concetto di madre, di genitore, di figlio, il terreno della discussione – mi dicevo –  è irrimediabilmente devastato. Qualunque cosa scriva, pensavo, non servirà a cambiare di una virgola l’opinione di qualcuno.
Poi, parlando con un caro amico, ho cambiato idea. E sono a qui a scrivere. Non perché mi illuda che qualcuno, leggendo, possa ricredersi. Ma perché sarebbe un tradimento tacere. Un tradimento della realtà. Se una foglia è verde, bisogna dirlo che è verde. Anche se tutti dicono che è blu. Tutti continueranno a sostenere che è blu? Pazienza. Ma almeno io l’avrò detto. E poi scrivo per mettere in ordine i pensieri, per confrontarli con le obiezioni di tanti. E vedere se le mie ragioni reggono.
Procedo elencando le obiezioni- ragionamenti che ho letto di qua e di là.
  1. Tobia c’è. Il figlio di Nichi Vendola (o meglio del suo compagno che ha dato il seme, di una donna che ha venduto l’ovocita e di un’altra che ha affittato o dato in surroga l’utero, come volete) esiste. Quindi tutte le critiche che si possono fare alla maternità surrogata devono far un passo indietro di fronte al miracolo di un’esistenza. Che questo bambino, essendo nato, abbia ogni diritto e la sua esistenza sia un bene in sé, è pacifico. Ma questo non toglie che si possa, anzi si debba riflettere sul come è venuto al mondo. L’esistente non solleva dall’onere di chiedersi cosa lo ha provocato o prodotto. Rinunciare a chiedersi come si è arrivati a qualcosa, in nome del fatto che quel “qualcosa”, anzi “qualcuno” c’è, è rinunciare a usare la ragione in tutta la sua interezza. Perché la ragione chiede sempre di sapere l’origine delle cose, la causa degli atti, il perché. La buona politica, il pensiero alto lo fanno di continuo. Rinunciare a questo, significa rinunciare a essere umani, dotati di ragione. Meno drasticamente, significa trasformaci in tecnici che si limitano a gestire l’esistente. Per di più qui si parla di vita, non di parametri contabili.
  2. Non solo. Tobia, come tutti i bambini nati in questo modo, sarà il primo a chiedersi perché c’è. Appena la sua coscienza comincerà a diventare adulta, si chiederà da dove è venuto. Ne sanno qualcosa i genitori adottivi, che vengono preparati a lungo all’inevitabile, spesso drammatico, momento  in cui dovranno spiegare al loro figlio le proprie origini. Perché i genitori, la madre lo hanno abbandonato.
  3. Quando lo chiederà, il fatto che è venuto al mondo prevarrà sul come. Gli diranno: se non avessi comprato quell’ovocita e quell’utero, non ci saresti. Ma siamo sicuri? Io ho dei dubbi. L’origine è un problema serio. Il Parlamento (e Michela Marzano è stata una delle più strenue sostenitrici di questa battaglia) ha dopo poco fatto una legge storica in cui afferma il diritto per gli adottati a risalire all’identità della madre biologica. Perché, si è detto, sulla base di decine di audizioni con esperti e della letteratura scientifica, questo diritto è persino più meritevole di tutela di quello, importante e per cui si è battuto il movimento femminista, alla segretezza della donna che partorisce. L’esserci, insomma, non acquieta la domanda sul “da dove vengo”. Non basta nemmeno quando si ha un’origine biologica certa, un padre e una madre, perché un adolescente si chiede e ti chiede che senso ha la sua vita. Perché mi hai messo al mondo? Ma questa domanda, da cui non si scappa, diventa ancora più drammatica di fronte allo sfaldarsi della propria origine biologica. Di fronte al fatto che, come qualcuno gli dovrà spiegare, sei il prodotto di un desiderio che per realizzarsi è dovuto passare dalla compravendita del corpo di due donne e dallo stesso acquisto di te. Credete davvero che tutto l’amore con cui, sicuramente, è stato cresciuto compensi questa scoperta? Credete che questo racconto sarà accolto da applausi?
  4.  Torniamo ancora ai genitori adottivi. Spesso non basta che dicano al figlio: “Noi ti abbiamo cresciuto, siamo noi i tuoi genitori”. A ragione, spesso il figlio adottivo dice:
No io voglio sapere chi sono quelli che mi hanno messo al mondo”.  
Non per curiosità o per stare con loro. Ma perché vuole sapere perché lo hanno abbandonato. Perché non lo hanno voluto.
Lasciare senza risposta questa domanda significa azzopparlo nello slancio verso la vita. Nel caso dei genitori adottivi, la risposta potrà partire dal fatto che, se anche i genitori biologici non ti hanno voluto, noi ti abbiamo accolto e voluto. Si tratta di un amore che colma un abbandono. Ben più complicato è se dei genitori, che non sono biologici, dovranno spiegare perché sono stati loro la causa di quell’abbandono. Perché hanno deciso di sottrarre a un bambino la possibilità di avere una madre e un padre. E non per un accadimento sfortunato, ma per scelta. Dovranno spiegargli perché è stato portato via dalla donna che lo ha portato in grembo. Perché l’ovocita da cui proviene è di una donna scelta su Internet e pagata. Non è solo un problema di conoscenza o di crescita, cioè che quel figlio non conoscerà la madre (anzi le madri, suddivise in ovocita e utero) da cui è nato e non sarà cresciuto da loro. E’ che quel bambino è frutto di un abbandono voluto. E di una privazione voluta: non avrà una donna a cui può dire madre. Viene al mondo subendo, per scelta di due adulti, una perdita irrimediabile.  Chi lo ha deciso? Il desiderio di paternità può essere più forte del diritto ad avere una donna a cui dire madre? Il modo in cui è nato, comprare l’ovocita da una donna, l’utero da un’altra, utilizzando il seme di un terzo soggetto, gli ha negato, per sempre, il legame tra la propria origine e l’ambito affettivo che lo ha fatto crescere. I due termini sono stati artificiosamente slegati. Non si chiederà perché? Non avrà diritto a chiedere perché non gli è stato dato quello che a tutti gli altri bambini è dato? Basta la vita per essere contenti di averla?
  1. Il desiderio di essere padre o madre è una cosa bellissima. Chi siamo noi per negarlo e per disquisire sui modi? E chi siamo noi per ignorare il desiderio e il diritto di un bambino ad avere una madre e un padre, una figura maschile e femminile? Chi ha deciso che il desiderio degli adulti vale più di quello dei bambini, solo perché questi non possono parlare o votare o promuovere sit-in? E chi siamo noi per sottrarre a un bambino il diritto di essere allattato, di sentire il corpo della donna che lo ha portato in grembo per nove mesi, di sentire il suo respiro, che ha conosciuto per nove mesi insieme al battito del suo cuore, di toccare le sue mani, di continuare un legame che tutta la neuroscienza e persino la pediatria sostiene sia fondamentale per un bambino e ricco di effetti sul suo sviluppo psichico e fisico? Chi ha deciso e in base a cosa che questo diritto vale meno di quello di quello di due ricchi adulti a sentirsi padri?
  2. I  figli sono di chi li cresce, l’importante è che ci sia l’amore. Il primo amore per un figlio consiste nel trasmettergli che la vita è buona, che ha un senso, che lui è unico, che è stato voluto. Senza questo, disprezzerà la vita, la salute, ti odierà perché l’hai messo al mondo, non avendolo chiesto. Come si fa a raccontargli che la vita è buona, che è frutto di un amore, quando gli devi anche spiegare che lui stesso è l’oggetto di un contratto commerciale che ha coinvolto tre persone che non hanno alcun legame affettivo tra loro? Che è venuto al mondo perché papà e papà volevano un figlio e non potendo averlo per via naturale se lo sono comprato, spendendo 150mila euro e questo ha comportato che gli fosse negata la presenza di una madre?
  3. Noi e la donna che ha partorito Tobia siamo una bella famiglia. La bella famiglia durerà un mese, due. Poi, quando Vendola, il compagno e il bimbo torneranno a casa, la famiglia, quella dove Tobia crescerà, sarà un’altra. E non vi farà parte la donna che lo ha generato. Non cambia se una volta o due l’anno dovessero tornare tutti e tre in California. La famiglia è quella che c’è nella quotidianità.
  4. Un conto è se a vendere il proprio utero è una donna povera, altro è se a farlo è una donna che non lo fa per soldi ma per “generosità” o convinzioni. Intanto c’è sempre di mezzo una compravendita. Che si tratti dell’India, della California o del Canada, la maternità surrogata si base sempre su contratto commerciale che prevede un acquirente (la coppia omosessuale o eterosessuale, perché spesso sono coppie sterili, formate da uomo e donna, che utilizzano questa pratica) e un venditore (di ovocita o di utero). E dietro c’è sempre un business dalle dimensioni crescenti che riguarda avvocati, esperti legali,  cliniche, medici, infermieri, psicologi. L’indotto, che si tratti di Paesi poveri o ricchi, rappresenta un giro miliardario di dollari e un catena industriale di attività.  In India si aggiunge all’orrore della pratica, lo sfruttamento della miseria o dell’ignoranza delle donne coinvolte. Ma il punto non  cambia se le protagoniste sono donne americane di buona istruzione che lo fanno consapevolmente: stiamo parlando di compravendita di un essere umano (un bambino), attraverso l’acquisto di parti del corpo della donna. Già la prima compravendita (un bambino) basterebbe a considerare questa pratica un orrore da condannare. Ma se la prima non bastasse, la seconda dovrebbe gridare vendetta. Donare un ovocita non è come donare un rene, comporta rischi enormi per la salute fisica e psichica di una donna. Significa bombardamenti ormonali. Vogliamo chiederci che conseguenze ci sono sul corpo di quella donna? Cosa ne è, dopo, di quella donna? Ci sono libri che raccontano gli effetti devastanti. Quanto all’utero, la violenza è, se possibile, ancora più mostruosa. L’utero non è un membro del nostro corpo come un altro. E’ la sede in cui prende forma un essere e in questo processo miracoloso le interazioni tra il corpo, la psiche della donna e quella del bimbo sono infinite. Può la donna essere ridotta a incubatrice neutra, derubandola di quello che le è più intimo, l’essere generatrice? Rispetta la dignità della donna il ridurla – non importa se lei è d’accordo – a macchina per produrre bambini da vendere? Può la maternità essere “surrogata”, appaltata? Secondo me è impossibile accettarlo anche dal punto di vista logico. La maternità non si può vendere, appaltare. Inizia dal primo giorno del concepimento ed è un legame che riguarda due persone. Si può interrompere. Durante i nove mesi o dopo la nascita. Ma non “surrogare”. E non conta che una donna lo faccia di sua volontà. Il punto è che il generare, quei nove mesi in cui dal nulla prende vita un essere, non sono a disposizione nemmeno della donna. Non è come vendere il proprio corpo. Per una ragione che dovrebbe essere evidente: qui c’è di mezzo anche un altro essere. La sua scelta incide per sempre e con effetti giganteschi su un altro essere.
  5. Ci sono casi in cui non c’è scambio di soldi, per esempio una madre che lo fa per la figlia o la sorella. Intanto sono casi rarissimi. Ma la domanda resta: può una donna, per “amore” per “altruismo”, vendere l’origine di un’altra persona? Io dico di no. Il punto è che l’atto generativo non è a disposizione. Crea, da subito, un rapporto che non puoi manipolare come ti pare.
  6. C’è una genitorialità biologica ma anche una genitorialità sociale. Su un quotidiano, L’Unità, addirittura si è parlato di “gravidanza della mente”. E qui arriviamo al punto. Chi difende la maternità surrogata, anche nelle forme più politcally correct, sostiene, al fondo, che il concetto di madre come lo abbiamo fin qui inteso, è da rivedere. La madre non è quella che partorisce. Madre è chi si prende cura. In questo senso padre o madre sono interscambiabili. Anzi, meglio eliminare queste parole e parlare semplicemente di genitore sociale, perché se il compito è solo quello di prendersi cura, non più di generare, non c’è una caratteristica legata alla femminilità. Il dare al mondo, invece, può essere sostituito dalle tecniche che la medicina inventa. Questa è una menzogna elevata a teoria, ma una menzogna. E’ vero che madri si diventa, nel senso che crescere un figlio è una cosa che si impara (o non si impara) ogni giorno. Ma un conto è crescere, e qui tutti possiamo essere alla pari nel meglio o nel peggio, altro è generare. Dare la vita non è un’attitudine, una capacità, qualcosa che si può apprendere o un dettaglio che si può mettere da parte. Né è sostituibile dalla tecnica. Dare la vita, generare, è partecipare dell’avvenimento più miracoloso che l’umanità affronti. Ed è connaturato alla differenza femminile. Non lo si può segmentare come fosse un bricolage: prendi l’ovocita, prendi il seme, prendi l’utero. Non solo perché porta diritti diritti all’eugenetica, che di fatto, grazie alla maternità surrogata, è già una realtà (gli aspiranti padri si scelgono in un catalogo le donne donatrici, potendo selezionare colore dei capelli, degli occhi, altezza, grado di istruzione, persino dieta, in funzione, ovviamente, del figlio che in questo modo possono “produrre”). Il punto è che demolire l’atto generativo, sottrarlo alla donna, significa demolire la base stessa della vita. Svilire la donna. E negare il principio della realtà. Può, un amore, nascere da una negazione di questo tipo?
  7. Nichi Vendola è un leader politico, ma il suo privato è privato. Io credo che i politici abbiano diritto a un privato. Ma quando una loro scelta privata ha a che fare con il dibattito politico in corso e pone dei dubbi rispetto a quello che hanno professato o almeno appare tale, hanno il dovere di motivarla. Ed è normale che l’opinione pubblica se ne interessi. Vendola ha lottato tutta la vita contro la mercificazione delle persone e oggi, riducendo due donne a merce, si è comprato un figlio (anche egli ridotto a oggetto acquistabile). Come lo spiega? E perché non ha affrontato a viso aperto questa scelta, motivandola anche politicamente, visto che mentre era in California qui in Italia si discuteva di una legge che finiva per intrecciarsi anche con vicende come la sua e come quella del senatore Lo Giudice? Può non rispondere. Ma è lecito parlarne.

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