Mi sono domandato se vi sia contraddizione nell' essere convinto estimatore di due osservatori economici così diversi come Luca Ricolfi (un mio riferimento assoluto) e Alessandro Fugnoli ( che ha il pregio grande di farmi anche sorridere leggendo di economia ). Li ritengo due realisti, con il primo però proiettato, per lo più, a vedere la metà vuota del bicchiere, l'altro esattamente l'opposto. Sicuramente il mio modo di vedere le cose, diciamo anche il carattere, è più vicino al professore di studi statistici e sociali, e però ho una certa di benevola invidia per chi riesce a scorgere sempre un lato positivo di vedere le cose.
"Il mondo non finirà domani !" è il motto proprio di Fugnoli, che peraltro, su questo, ha sempre avuto ragione.
Solo che il mondo cambia pure, e non è detto che i cambiamenti ci aggradino sempre.
In questo caso, anche io, come Ricolfi, sono convinto che l'attuale crisi occidentale sia epocale, anche, se non soprattutto, per il mutamento antropologico (allarghiamoci va) di popolazioni che, viziate da decenni di pace e benessere sconosciuti nella storia precedente, ora li pretendono, sbattendo i piedi come bambini capricciosi e viziati.
La crisi iniziata del 2007 "festeggia" il suo decimo anno, e non mostra segni di vero superamento, anzi il timore è chi si approssimi una terza ricaduta. E noialtri non siamo granché attrezzati per affrontarla, e non è solo colpa di chi governa.
Se dieci anni vi sembrano pochi

È diventato ormai un luogo comune paragonare la crisi di
oggi a quella del 1929, ossia alla più grave crisi delle economie
capitalistiche prima dell’attuale. E tuttavia, nel decimo anno dall’inizio
della crisi ( 2007), forse sta diventando più chiaro che i tratti distintivi
della crisi attuale sono assai diversi da quelli del ’29.
Il primo tratto è il suo profilo temporale. La crisi attuale
non è stata né a V (crollo e rapida ripresa), né a U (caduta e lenta ripresa),
né a L (caduta seguita da stagnazione), e forse neppure a W (double dip, ossia
caduta, finta ripresa, nuova caduta), come credevamo fino a un anno fa, quando
ci si illudeva di essere all’inizio di un nuovo periodo di crescita. A
giudicare dai segnali di rallentamento degli ultimi trimestri, la W (doppia V) potrebbe tramutarsi
in tripla V (triple-dip, con terzo tuffo tra il 2016 e il 2017), come qualche
economista aveva profeticamente congetturato fin dal 2013-2014.
Il secondo tratto distintivo è la dinamica dei prezzi, che
dopo un primo periodo altalenante (2007-11), dal 2012 non ha fatto che
rallentare, ed ora sta entrando in regione negativa, a dispetto di tutte le
politiche messe in atto per creare inflazione.
Se riflettiamo su questi due tratti distintivi è facile
rendersi conto quanto sia fuorviante il confronto con la crisi del 1929. Quella
del 1929 fu una “grande” crisi, quella attuale è innanzitutto una “lunga”
crisi: allora la ripresa impiegò 4-5 anni a manifestarsi, secondo il classico
schema della crisi a U, oggi non sappiamo neppure se quella attuale è una vera
ripresa, che prelude a un nuovo periodo di crescita, o se stiamo sperimentando
la terza falsa ripartenza, dopo quelle del 2010 e del 2013, secondo l’inedito
schema di un triple-dip, o crisi a tripla V.
Quanto alla dinamica dei prezzi,
quella di oggi pare l’immagine speculare di quella di ieri: nella “grande” crisi
del 1929 i prezzi scesero all’inizio per poi riprendere la loro corsa, nella
“lunga” crisi 2007-2016 i prezzi sono saliti all’inizio (ricordate il petrolio
a 150 dollari il barile?), salvo iniziare una lunga stagione di raffreddamento
dopo il secondo “tuffo”, quello del 2011-2012. Se proprio vogliamo trovare
qualcosa di vagamente simile nel passato, più che alla grande crisi del 1929
dovremmo rivolgerci alle lunghe crisi del 1873-1895 e al “decennio perduto” del
Giappone dopo il 1990.
Storie ovviamente diverse, ma con due tratti in comune con
la nostra vicenda attuale: la persistenza nel tempo, e la tendenza al
raffreddamento dei prezzi. Sono questi due aspetti, a mio parere, che
meriterebbero oggi una riflessione disincantata. Perché la politica di espansione
monetaria non funziona? Perché la crisi dura così a lungo? E soprattutto:
esiste una via di uscita realistica?
Sul primo punto vorrei fare una
contro-domanda: siamo sicuri che l’inflazione non sia ripartita?
Certo, se ci ostiniamo a guardare solo i prezzi al consumo,
o la cosiddetta core inflation, è chiaro che i prezzi sono sostanzialmente
fermi. Ma basta allargare lo sguardo a tutti i beni, compresi gli asset
finanziari e reali (titoli e immobili), per rendersi conto che la politica dei
bassi tassi di interesse produce precisamente gli effetti che ci si possono
attendere quando mancano stimoli reali: in questi anni gli indici azionari dei
principali mercati borsistici sono cresciuti a un ritmo ampiamente superiore a
quello degli anni pre-crisi; e persino i prezzi delle case, da qualche tempo,
stanno rialzando la testa in paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania.
Quanto alla durata della crisi e ai modi per lasciarcela
alle spalle, forse non sarebbe inutile, anche qui, provare a cambiare la
domanda. Siamo sicuri che abbia senso sperare in un ritorno ai ritmi di crescita
del passato? E se una crescita del 2% o del 3% fosse l’obbiettivo massimo che
un’economia matura può realisticamente porsi? Non dovremmo allora prendere atto
che la crisi è finita da tempo in almeno la metà delle società avanzate, e il
problema riguarda le altre, quasi tutte interne alla zona euro?
Può darsi che, come spesso mi succede, io pecchi di
pessimismo, ma temo che il regime di stagnazione, o di lenta crescita, che si
profila all’orizzonte, con l’inedito cocktail di prezzi e produzione entrambe
stagnanti, non abbia le sue radici ultime in errori macroscopici ed evidenti
(che pure ci sono stati) da parte delle autorità che governano le nostre
economie ma sia, per così dire, cablato nelle scelte di fondo delle nostre
moderne società “arrivate”.
È opinione abbastanza condivisa che, se l’economia non
riparte, è soprattutto perché c’è un deficit di domanda interna, e che è
ingenuo aspettarsi assunzioni e investimenti finché il portafoglio-ordini delle
imprese piange. Meno condivisa o meno accetta è la spiegazione del perché la
domanda interna ristagna, e soprattutto del perché le autorità monetarie e i
governi non siano in grado di stimolarla. Eppure è questo che fa la differenza
con tutte le crisi del passato, comprese le due che più assomigliano alla
nostra attuale (la crisi di fine ’800 e la crisi giapponese degli anni ’90).
Il
nocciolo della questione è che tutti – governi, imprese, famiglie – dipendiamo
dai mercati finanziari per operare, ma nessuno è nella condizione di
indebitarsi ulteriormente senza scatenare una tempesta finanziaria globale.
E
questo per un motivo assai semplice: il debito di ciascuno di questi tre
soggetti, che molto era cresciuto prima del 2007, non solo non si è ridotto
negli anni della crisi, ma è cresciuto ancora, a un ritmo molto superiore a
quello del Pil.
Secondo un rapporto McKinsey questo aumento dell’indebitamento,
prima ancora che le imprese e gli Stati, ha riguardato le famiglie
consumatrici, i cui debiti (a livello mondiale) sono passati da 33 a 58mila miliardi di
dollari nel giro di appena 7 anni, dal 2007 al 2014. Ecco perché non ci si può
stupire che i bonus elargiti dai governi non si traducano facilmente in
consumi: debiti del passato e incertezze sul futuro sono sufficienti a indurre
le famiglie a risparmiare anziché a spendere.
A questo problema di fondo, che riguarda il mondo nel suo
insieme, si aggiungono, nelle società avanzate, due altri ostacoli formidabili.
Il primo è che molti paesi (primi fra tutti i Pigs mediterranei) continuano ad
avere cattivi fondamentali, e in questi anni di crisi hanno fatto troppo poco
per modificarli. Il secondo, forse più importante, è che il benessere già
raggiunto ha gravemente ridotto l’offerta potenziale di molti paesi.
Se non può
indebitarsi ulteriormente, l’unica strada che un paese ha a disposizione per
aumentare la domanda interna è produrre di più. Peccato che la spinta a
produrre di più richieda o governi che abbassano drasticamente i costi del
produrre (con buone infrastrutture, poca burocrazia, basse imposte), o
popolazioni disponibili a lunghi anni di sacrifici per migliorare la propria
condizione.
Questi presupposti, per molti versi tipici degli anni ’50 e ’60,
oggi sono presenti solo in pochi paesi, o in particolari gruppi sociali (penso
agli immigrati) all’interno di ogni paese. A distruggerle non è stata solo la
crisi, ma la prosperità raggiunta dalle nostre società, che ci ha resi
cittadini diversi dai nostri padri e dai nostri nonni.
Il livello cui
pretendiamo di vivere, ovvero la (modesta) quantità di lavoro e abnegazione che
siamo disposti a mettere in campo in cambio di maggiori consumi, è la prima
ragione che non ci permette di aumentare il livello di benessere che abbiamo
già raggiunto.
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