domenica 13 marzo 2016

TRA GUFI E ARROGANTI, NEL PD E' GUERRA DEI ROSES PERMANENTE

 Risultati immagini per la guerra dei roses

Nei giorni in cui infuria più che mai la rissa continua tra maggioranza e minoranza piddina, moltoopportuna ed efficace arriva la sintesi tentata da Pierluigi Battista per descrivere il caos armato che regna in quell'emisfero.
Se nonostante questo il PD renziano continua ad essere titolare della maggioranza relativa dei consensi italici, ciò è dovuto, palesemente, alla prevedibile ma non per questo meno drammatica incapacitàdel centro destra di trovare un vero successore al capo indiscusso degli ultimi 20 anni, mentre i grillini, pur catturando la  simpatia delle ali cd.populiste di sinistra e anche destra, spaventano, e non poco,  l'elettorato moderato. 
Ed è su questo che conta Renzi per vincere in caso di ballottaggio coi 5 Stelle. Calcolo che ha buone probabilità di NON funzionare nelle prossime amministrative (al contrario di me, che voterei Giachetti,preferendolo alla Raggi, conosco almeno 5 amici di centro destra che voterebbero la grillina) , ma che invece ha maggiori possibilità di riuscita nelle elezioni politiche nazionali.
Funzionava così anche nella prima Repubblica, col voto in libera uscita dalla DC nelle elezioni locali e che si ricompattava quando si votava per il Parlamento. 
Tra le varie giuste considerazioni che trovate da presso, mi ha fatto riflettere l'annotazione di Battista sulla incapacità della minoranza dei dem di sinistra di fare fronte unico, di concepire una realtà alternativa unita da contrapporre al trasformismo opportunista di renzino & Co.  Fassina, Civati, D'Attorre sono usciti ma ognuno sta per conto suo..., mentre quelli rimasti nella ditta, a loro volta non di rado NON fanno fronte comune, pur proponendosi tutti con accenti critici - di intensità però anche molto diversa - nei confronti del Governo e della maggioranza del partito. 
Personalmente, vedere in difficoltà uomini come Gotor, Casson, lo stesso smacchiatore - mancato - di giaguari, o altri ritirati offesi sotto la tenda di Achille (parlo di Prodi e Letta ), per non parlare della marginalizzazione totale di Bindi, Parisi, Del Turco, Melandri, o parziale di Finocchiaro, fa indubbiamente piacere. Così come immaginare perdenti le candidature di Bray a Roma o Colombo a Milano (e infatti il secondo non si presenterà, mentre il primo ci sta pensando) sono pensieri solari.
Però poi il pensiero va al fatto che qualcuno lo deve pur provare almeno ad amministrare (governare è roba troppo tosta) questo cacchio di paese e allora la prospettiva desertica spegne ogni sorriso sui guai altrui.
Buona Lettura



C’eravamo tanto odiati


di Pierluigi Battista


Risultati immagini per guerra nel pd

Nel Partito democratico sembra svanito ogni residuo di sentire comune. Si detestano, si vogliono male, non credono più in un destino condiviso. Matteo Renzi, nel commentare l’intervista di Massimo D’Alema a Aldo Cazzullo per il Corriere in cui si profilava l’ombra di una scissione, riesuma la categoria dell’«odio» politico come chiave per decifrare l’aggressività dalemiana. Il conflitto tra linee politiche, che pure dovrebbe modellare i rapporti anche tempestosi tra componenti dello stesso partito, diventa inconciliabilità comportamentale, addirittura incompatibilità psicologica: «gufi» contro «arroganti». Persino nei partiti italiani più devastati dal morbo correntizio non si era mai sperimentato, come affiora in ogni dichiarazione degli esponenti della minoranza Pd, il desiderio potentissimo di una sonora sconfitta elettorale del proprio simbolo.  

Una scissione emotiva silenziosa, che prelude alla speranza di una botta nelle urne come antefatto per la cacciata del segretario vissuto come un «usurpatore»
E del resto, non si ricorda un segretario di un partito che prevede una democrazia interna di anime diverse, dunque non monolitico e autoritario come fu per esempio il Pci, rivendicare ripetutamente di aver «asfaltato» la minoranza interna.
Se per il Pd le conseguenze di questo auto-cannibalismo non saranno catastrofiche è solo perché l’antagonista di sempre, il centrodestra, è in una condizione di agonia, comunque di dissoluzione. 

Ma come avviene nei matrimoni che si sfasciano, le colpe di un tale avvitamento nell’odio reciproco sono ben distribuite nella coppia. Renzi e il suo cerchio magico non mancano occasione per umiliare gli oppositori interni, bollati come una banda di stagionati conservatori immersi nel vecchiume di una sinistra condannata perennemente alla sconfitta, chiamati a chinare il capo e a non ostacolare l’azione del capo decisionista. In questo clima di continua battaglia per «asfaltare» la minoranza, a volte commettono errori marchiani, come è avvenuto a Napoli quando hanno deciso di non accogliere con futili pretesti formali il ricorso di Bassolino sulla regolarità di primarie macchiate dalle scene che si sono viste nei filmati. A volte peccano di presunzione, come è accaduto in Liguria con la scelta di un candidato, pur legittimato da primarie peraltro altrettanto contestate, che ha fatto infuriare la sinistra interna fino alla vittoria dell’avversario di centrodestra.
 Ma sempre con l’intenzione, visibile ad occhio nudo, di liberarsi una volta per tutte di questa molesta minoranza di dinosauri, anche con l’ausilio parlamentare di truppe straniere come i «verdiniani».
I dinosauri della minoranza, peraltro, conducono la loro battaglia appellandosi di continuo al loro potere di veto e di interdizione, salvo allinearsi con il segretario Renzi nei voti parlamentari decisivi: come è accaduto al Senato, dove la riforma costituzionale è stata votata dopo aver tuonato per mesi sulla sua inammissibile e pericolosa connotazione autoritaria. Oggi la minoranza si mette sulla riva del fiume e aspetta che il segretario anneghi prima di averla definitivamente «asfaltata».
Non rompe, come pure si è azzardato a dire Massimo D’Alema, perché sa che fuori del Pd non potrebbe raggiungere un consenso elettorale significativo. Sa che fuori del perimetro piddino troverebbe rissosità, confusione, personalismi, rendite di posizione, microapparati in perenne guerra tra loro. 

 Nessuno, oltre ai parenti più stretti e agli osservatori più maniacalmente attaccati alle minuzie della vita politica, potrebbe riuscire a capire perché i Fassina, i Civati, i Cofferati, i D’Attorre, quelli che sono usciti dal Pd rifiutando di restare aggrappati alla «ditta» come vuole Pier Luigi Bersani, non si siano finora messi insieme per costruire qualcosa a sinistra del Pd che sia minimamente credibile. 
 Ed è per la paura di questa deriva che la minoranza che ancora ha deciso di stare dentro e di non rompere secondo la linea dettata da D’Alema, preferisce acquattarsi nella speranza di uno scivolone dell’«usurpatore», a Roma e a Napoli in primis. Un partito che scommette contro se stesso rischia molto. E anche un leader che deve vincere per sconfiggere la minoranza interna rischia di correre una partita anomala. I separati in casa rischiano di odiarsi troppo, con il pericolo di una rovina che potrebbe seppellirli.
 Solo grazie alla debolezza dell’avversario possono evitare derive catastrofiche. Ma per quanto?

Nessun commento:

Posta un commento