mercoledì 20 aprile 2016

IL COMPLESSO MAFIOSO DEI TIFOSI DI CALCIO

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Non mi stupisce quello che è toccato a Pierluigi Battista, reo di aver parlato ieri sul Corsera della "romanità", prendendo spunto dal caso Totti, ormai immanente nella casa giallorossa, che riesplode più virulento a seconda dei risultati e degli scatti di nervosismo del poco sereno mister attuale della Roma, quel Luciano Spalletti che, o si calma, oppure è meglio che scopra come vincere sempre per potersi permettere atteggiamenti e toni che si perdonano solo a quelli che vincono (e finché lo fanno).
Che la dissertazione "antropologica" dell'ex direttore del più importante giornale nazionale, reo però di nascere a Milano, non fosse stata punto apprezzata l'avevo capito subito ascoltando la mattina presto la radio Rete Sport, monotematica (si parla solo di Roma) , che peraltro ha anche - non solo evidentemente...- conduttori e commentatori sereni ed apprezzabili.  Ebbene, l'intervento di Battista (ma anche quello di Mattia Feltri, su La Stampa, che ieri abbiamo riportato : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2016/04/totti-e-la-romanita-vista-dagli-altri.html ) , non era piaciuto.
Ma fin qui, ci sta.
E' sulla rete che, more solito, si è scatenata la canizza, coi cosiddetti "leoni da tastiera", come sarcasticamente e giustamente li definisce Luca Valdiserri, bravo giornalista, tifoso della Roma ma "reo" di esserne in realtà nemico per interventi troppo spesso obiettivi e , di conseguenza, non di rado critici.
Il complesso da famiglia mafiosa, dove tutto deve rimanere all'interno, e nessuno deve osare penetrare, nemmeno solo per commentare, è tipica dei tifosi di calcio, evidenzia Battista, ed è un virus che contagia anche persone per altri versi intelligenti, gradevoli, pacate. Per la squadra di calcio si trasformano, e rivelano un lato oscuro talmente profondo che ci vorrebbe Gandalff il bianco per provare ad esorcizzarlo.
Non lo avevo fatto ieri, scegliendo l'intervento di Feltri, lo faccio oggi e pubblico prima l'articolo "incriminato" e poi quello odierno, a commento delle scomposte reazioni.
Ovviamente Battista ha ragione, e i tifosi torto.
Quando il romano cessa di essere tifoso, migliora, e a volte ancora ti stupisce con disponibilità e generosità  infrequenti altrove.
Qualche giorno fa cercavo una via, e domandavo. Ero in scooter, un giovanotto ha sentito la mia domanda ad una gentile signora anziana che cercava di spiegarmi. E' intervenuto e mi ha detto "dai seguimi, te ce porto io".
Ecco, il romano è anche questo, quando se ricorda.





 
Il Corriere della Sera - Digital Edition
 


 

La sfida durissima all'essenza e ai simboli dell'eterna romanità

di Pierluigi Battista

 
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A un giornalista romano che gli chiedeva quali fossero le sue opinioni politiche, Nils Liedholm, allora allenatore giallorosso, rispose: «Socialdemocratico». E il giornalista: «Saragattiano?». E lui: «guardi che sono svedese». Liedholm non si era fatto ingoiare dalla mollezza romana e la Roma vinse lo scudetto. Persino la parlata di Liedholm rimase per sempre qualcosa di estraneo, di irriducibile al lessico romano. Anche Luciano Spalletti ha preso di mira il simbolo della romanità calcistica, Francesco Totti, per tutti l’amatissimo, l’idolatrato, il veneratissimo «Pupone», per non farsi abbindolare dai riti e dai ritmi della Capitale. Ne ha fatto la sintesi umana dello sconfittismo giallorosso (dieci anni di figuracce, ha detto), e del languore delle ore piccole, della bella vita, della pigrizia (come giocare a carte fino alle due di notte prima della partita, ha detto). Tra Spalletti e Totti si inscena uno spettacolare duello antropologico. Spalletti detesta Roma perché la sua essenza morale le impedisce di vincere. E infatti ce l’ha anche con un’altra icona dell’antropologia romanista: Daniele De Rossi. Contro Roma ha già perso la panchina una prima volta. Ora basta, Roma la molle, Roma l’incantatrice, Roma con le sue luci, i suoi colori, la sua musica, le sue notti, le sue feste, la sua testa poco concentrata sulla vittoria in campo, stavolta deve piegarsi all’uomo venuto da un altro mondo. Geograficamente non molto distante: la Toscana. Ma mentalmente lontano come due pianeti che non si guardano.

I romani hanno sempre l’espressione di chi la sa più lunga, di che ne ha viste di tutti i colori, di chi sa che la storia deve fare i conti con la città «der Cuppolone» e della maestà del Colosseo (Antonello Venditti, cantore ufficiale).
Sentimentalmente tra il Pupone e Spalletti non c’è partita: vince Totti.
Roma, dice lo scrittore Filippo La Porta, è la città dell’«anvedi», che significa: stai a vedere che vorresti sorprendermi. Roma, ha scritto il milanese Stefano Bartezzaghi nel suo «M-Una metronovela», si riconosce in un’espressione: «“Sticazzi” significa: vabbé, chi se ne importa (“Un po’ mi è dispiaciuto, ma poi sticazzi”), mentre a Milano e in tutto il Nord lo si considera invece un equivalente di “Accidenti, sono impressionato” con un totale capovolgimento di significato».
Spalletti deve stare attento a non capovolgere i significati dell’atteggiamento di Totti, perché uno «sticazzi» equivocato potrebbe stenderlo.
I romani credono di saper tutto, guardano tutto con cinismo e dall’alto della città che loro amano chiamare «eterna». Si dice che tra gli impiegati romani dei ministeri si affermi che i ministri passano, ma i ministeri restano.
Stia attento Spalletti perché i tifosi giallorossi pensano che, in fondo, gli allenatori passano ma la «Maggica» resta per sempre. E se qualcuno obiettasse: ma dai, di romani romani non ne esistono più, sono tutti immigrati e figli di immigrati, la risposta sarebbe: appunto, proprio perché non lo sono giocano a fare i romani di infinite generazioni, tutti discendenti del marchese del Grillo, anche se vengono dalla Marsica, dalle Puglie o dalla Campania.

Spalletti deve considerare i tempi di reazione del popolo giallorosso alle tensioni tra la sua panchina e Totti. All’inizio hanno gridato al sacrilegio, hanno issato cartelli, si sono indignati per la profanazione del Capitano. Stavano per fare l’insurrezione. Poi però Spalletti ha infilato la serie positiva di vittorie e il popolo giallorosso ha accettato obtorto collo persino l’esclusione del Pupone dall’amatissimo derby. Al primo intoppo, il pareggio casalingo con il Bologna e le disavventure di Bergamo, si è riaccesa la miccia della ribellione. E il duello antropologico ha avuto libero sfogo. Secondo modalità molto tipiche del romanismo giallorosso, e cioè quando occorrerebbe un ultimo sforzo per ottenere il risultato decisivo, il secondo posto per la Champions, alla vigilia della partita-spareggio con il Napoli. Questo, Spalletti non lo aveva considerato.

Ma lo deve considerare se vuole vincere la battaglia con il suo nemico antropologico, la prevalenza del sentimentalismo, er core de Roma, «bello de nonna» gridato al giovane Florenzi, la pastasciutta, il languore delle sere e delle notti. I leghisti erano arrivati tutti infervorati contro Roma ladrona, e dopo un po’ ne sono rimasti ammaliati, perdendo la purezza. Il predecessore di Spalletti, Garcia, si è fatto avvolgere dai riti dell’edonismo romano, con quali risultati si è visto. Perché i manuali di storia capitolina non dicano un giorno: gli Spalletti passano, i Puponi restano.






L’inaccessibile tempio del tifo: se non sei con noi, non puoi parlare di noi

di Pierluigi Battista

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Per aver scritto qui dello scontro tra Luciano Spalletti e Francesco Totti come di un duello antropologico sulla romanitudine, tra l’alieno e il Pupone «core de Roma», in poche ore ho ricevuto via mail o via social una valanga di insulti e di invettive, per lo più, come è facile immaginare, irriferibili su un giornale come il Corriere della Sera. Come si dice a Roma: ci sta. Anzi: ce sta. Non è la prima volta. È capitato altre volte, due anni fa ho addirittura vinto la medaglia d’argento del giornalista più insultato dalla platea dei blog grillini alle spalle del vincitore Giuliano Ferrara, ma mai in questa misura e con tanto ardore. E soprattutto non per ciò che era scritto nel mio articolo, ma per il fatto stesso che io avessi osato scriverlo. Per aver profanato qualcosa di sacro. Per essermi introdotto in un tempio inaccessibile agli infedeli. Per aver parlato della Roma pur non essendo romanista.
Qualcuno con arcigna severità, e senza insulti stavolta, mi ha pure accusato di aver mancato alla deontologia professionale non avendo dichiarato di essere tifoso della Juventus. Il massimo del tradimento: essere romano e juventino, della stessa città del Pupone ma tifoso della squadra arcinemica. Meritevole di insulti. Peccato che nell’articolo non si parlasse della Roma, ma di Roma. Non di una diatriba calcistica, ma di un confronto durissimo che mette in luce una parte dell’identità di una città amata e odiata, meravigliosa e scombinata, spettacolare e caotica.
Eppure, ammesso che si parlasse della Roma, è interessante lo spirito tribale, l’atmosfera da clan chiuso, da gigantesca setta da curva che l’ingiunzione a non parlarne mette in evidenza: si parla di una squadra, anche male ma i panni si lavano in famiglia, solo essendone tifosi.
Se sei interista sei titolato a parlare dell’Inter, della Juve se juventino, del Napoli se napoletano, ma nessuna salvezza fuori della chiesuola. Uno spirito di tribù, direttamente mutuato dagli schemi del talk televisivo: il milanista che fa il milanista, lo juventino che fa lo juventino e così via. Pensate a cosa sarebbe ridotto il giornalismo se un simile afflato tribale si applicasse in altri settori: parli di Renzi solo se sei del Pd, di Berlusconi se sei del centrodestra, di Lega solo se sei del Nord. Un’assurdità.
Ma questa assurdità appare assolutamente normale, anche per persone solitamente ragionevoli, moderate, tolleranti, ogni volta che si entra nell’agone calcistico. Come se qualunque argomento non valesse niente rispetto al principio di appartenenza.
Ecco perché essere insultato per aver eventualmente scritto sciocchezze è un conto, ma essere bersagliato di improperi come un intruso è il segno di una distorsione culturale. E anche un negare che le cose dello sport possano essere lo specchio di un modo di essere del mondo, il riflesso di un’antropologia, di una mentalità, di una storia. Possiamo farne a meno, per carità: ci resta sempre un «daje» per consolarci e sentirci uniti .

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