lunedì 8 agosto 2016

DIACONALE REPLICA A GUELFI : "MEGLIO LA VECCHIA RAI". INTANTO GRAZIE A RENZI SI CONSUMA IL FURTO DEL CANONE

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C'è di peggio di Matteo renzino, quanto ad insopportabilità dell'ascolto, ed è costituito dai suoi ventriloqui. I tanti, troppi, che finiscono in tv per ripetere le parole del capo.
Succede in tutti i campi, e naturalmente non poteva non accadere per la recente polemica sulle nomine RAI. Lungi da me rimpiangere la dipartita dalla poltrona del TG3 dell'algida Bianca Berlinguer, però le repliche dei pappagalli renziani - in questo caso tale Guelfo Guelfi (cacchio di nome...) sono veramente stomachevoli.
Sul Corriere della Sera di oggi si dà spazio alla lettera scritta da Arturo Diaconale, uno dei componenti del CDA RAI (evidentemente tra quelli in minoranza) in risposta al guelfo .
Nel frattempo, mi è arrivato, come penso a quasi tutti, l'addebito del Canone in bolletta. Un vero furto, e ci voleva renzino, quello che nel suo primo libro scriveva della privatizzazione della RAI, per perpetrarlo. Non è tanto la cifra, che non morirò per questo ladrocinio di 100 euro, ma il fatto di contribuire ad una cosa indigesta come la lottizzazione RAI, a pagare stipendi ricchissimi a gente che non si sa nemmeno se lavora .
Perché il canone signor presidente del consiglio ???





Ma la rai era più pluralista

di Arturo Diaconale

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Caro direttore, ha ragione Guelfo Guelfi quando sostiene che non ci sono stati «carri armati» nel consiglio di amministrazione in cui sono state approvate le nomine dei direttori delle principali testate della Rai decise dal direttore generale-amministratore delegato Antonio Campo Dall’Orto. I carri armati non servivano perché i rapporti di forza tra i consiglieri di maggioranza e quelli di minoranza sono da risultato tennistico o da goleada calcistica: 6 a 3.

Ma quel 6 che rende inutile l’esibizione della forza è formato dal voto della presidente, che avrebbe dovuto essere «di garanzia» di tutti e che oggi garantisce solo la parte governativa, del voto del rappresentante del ministero dell’Economia e da quattro consiglieri eletti da una commissione di Vigilanza al cui interno la prevalenza dei rappresentanti delle forze politiche dell’area governativa è assicurata dal premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale.

Se è vero che gli azionisti dell’azienda radiotelevisiva pubblica sono i cittadini che pagano il canone, è dunque chiaro che quel 6 a 3 è espressione di un Paese formale a cui non corrisponde il Paese reale. Ed è ancora più evidente che ha messo in condizione una parte politica, espressione di poco più del venti per cento del Paese, di occupare il cento per cento delle principali testate giornalistiche del servizio pubblico.

Questa vicenda è un evento che cambia la storia del servizio pubblico segnata, dalla metà degli anni 70 in poi, da un pluralismo che accanto ai Tg ed ai Gr di osservanza governativa prevedeva sempre e comunque uno spazio ridotto ma comunque rilevante per l’opposizione.

Dopo le tre vittorie riportate dal centrodestra nel ’94, nel 2001 e nel 2008 a nessuno dei vincitori è passato per la testa di applicare il 6 a 3 di allora per normalizzare il «fortino» non dei partiti ma dell’area culturale della sinistra rappresentato dalla Terza Rete e dal Tg3. Biagi, Santoro e Luttazzi saranno stati pure oscurati (e su quegli «oscuramenti» si potrebbe discutere) ma da Sandro Curzi a Bianca Berlinguer la bandiera delle «voci contro» è continuata a sventolare sul ridotto creato a suo tempo da Angelo Guglielmi. Quei tempi sono passati. Al punto che oggi a «normalizzare» il vecchio fortino della sinistra tradizionalista ci ha pensato non la destra moderata ma la sinistra rottamatrice.

Ma è un gravissimo errore pensare che il tempo del pluralismo lottizzatorio sia stato superato dal pensiero unico promosso da Tg e Gr diversi tecnicamente ma identici nella informazione solo ed esclusiva-mente politicamente corretta. Nel servizio pubblico di proprietà del cento per cento dei cittadini lo spazio per le «voci contro», che oggi sono di varia provenienza, va comunque garantito. Altrimenti o è la Rai che diventa privata e pagata da chi ne usufruisce o è la democrazia che diventa simile a quella di Erdogan. O, se non vogliamo buttarla sul tragico, alla democrazia delle «fighette» denunciata da Clint Eastwood!

Componente del Cda Rai




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