domenica 18 dicembre 2016

GALLI DELLA LOGGIA E LA DELUSIONE PER IL RENZI PAUROSO DELLA "SOLITUDINE" E UN PO' FURBASTRO

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Tra i miei conoscenti annovero persone che ammirano totalmente sia Ernesto Galli della Loggia che l'ex presidente del consiglio. Condivido la prima cosa, anche se in maniera meno accesa, e per nulla la seconda.
Questo ancorché mi faccia un certo effetto sentire Grillo dargli del bugiardo, immagino facendo riferimento al mancato ritiro dalla politica a seguito della batosta referendaria (ah, finalmente, la barzelletta del 40% da cui ripartire è finita : "abbiamo straperso" è la sintesi finale della batosta referendaria di renzino, e non se ne parli più). Veramente il leader dei 5 Stelle ci aveva creduto ? Un po' sciocco, del caso. E poi, quanti passi di lato o indietro sono stati annunciati proprio dal comico genovese nell'ultimo anno ?
Ciò posto, quelli che hanno creduto, e ancora un po' credono che Renzino fosse veramente l'uomo della speranza, del rinnovamento, della diversità, non possono non rimanere delusi dallo spettacolo di questi giorni.
E Galli della Loggia, a quanto pare, è uno di loro.
Personalmente, era da tempo che non leggevo un articolo così convincente del politologo.
Buona Lettura





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Renzi tra solitudine e WhatsApp

In quella notte fatale del 4 dicembre il presidente del Consiglio ha avuto paura di scomparire. Per questo ha deciso di non prendere la strada del silenzio




 L’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (Ansa/Carconi)
 
Dopo la sconfitta al referendum, e dopo aver pagato il prezzo delle dimissioni che non poteva non pagare pena un discredito assoluto e insostenibile, a Matteo Renzi si aprivano davanti due strade: quella della solitudine e del silenzio — ritirarsi per qualche tempo a capire e a pensare per poi tornare in campo, abbandonando anche la segreteria del Pd - ovvero la strada di dimettersi, sì, ma senza neppure fare finta di abbandonare la scena. Anzi di occuparla in certo senso ancora di più con la presenza incombente di chi sta dietro le quinte e tira i fili. Renzi, come si sa, ha scelto la seconda strada.
Commettendo però, a mio avviso, un errore gravissimo che minaccia di abbassarne irreparabilmente la statura politica. Fare il dominus per procura del governo Gentiloni, incarnare una sorta di primo ministro via telefono o WhatsApp, è qualcosa, infatti, destinata ad apparire inevitabilmente, rispetto alle dimissioni, una specie di «qui lo dico e qui lo nego», una trovata da furbastro. In questo modo, poi, da quel piedistallo di «diverso» per antonomasia dotato del potere di comando, che è stato da subito e fino ad oggi il suo, Renzi si ritrova inevitabilmente omologato a tutti gli altri comprimari del teatrino della politica, risucchiato nella loro grigia routine. E così, ad esempio, saranno oggetto di quotidiane indiscrezioni i suoi ordini ai luogotenenti nel governo; come segretario sconfitto di un Pd dilaniato sarà coinvolto nelle mille prevedibili risse quotidiane tra riunioni, tweet, intervistine e chiacchierate a Porta a Porta. 
 
Un logoramento implacabile. Non basta: quella che fu la «speranza d’Italia» (che fu anche la speranza di tanti di noi) non dovrà forse anche sedersi per interminabili settimane al tavolo delle trattative per la nuova legge elettorale? Non sarà anche costretto a «guidare la delegazione» del Pd? A dibattersi tra quotidiani oceani di parole, di proposte, di calcoli e controcalcoli, di bozze e aggiustamenti vari ogni volta diversi da quelli del giorno prima? E come farà in tutto questo - non disponendo neppure della tribuna parlamentare, - a non tormentarci con una raffica di dichiarazioni ? di vani battibecchi televisivi con l’onorevole Brunetta, con la senatrice Taverna o chi per loro?
Da cui la domanda decisiva: sarà ancora possibile, alla fine, scorgere qualcosa di nuovo e di diverso in colui che si sarà trovato ad essere risucchiato in questo modo nell’accozzaglia di coloro che un tempo aveva promesso di rottamare?
La verità è che in quella notte fatale del 4 dicembre Renzi ha avuto paura. Ha avuto paura di essere «fatto fuori», di scomparire. E per questo ha deciso di non prendere l’altra strada che aveva dinanzi: la strada del silenzio e della solitudine (fosse pure di soli pochi mesi). «Non immaginavo di essere tanto odiato», riferiscono che avrebbe detto in quelle ore. Anche di quell’odio probabilmente ha avuto paura: di non riuscire a sostenerlo da solo. Ed è anche per difendersene che ha cercato rifugio nel ventre caldo della routine politica istituzionale, quella dove gli echi del mondo giungono così opportunamente attutiti.
Si è così precluso la scelta della solitudine. La solitudine sarebbe dovuta servire a Renzi innanzi tutto per riflettere e spiegare a se stesso le ragioni della sconfitta (circa le quali aspettiamo ancora di conoscere la sua opinione). A capire e a riflettere sugli errori commessi, sui segnali non visti, sui consigli sbagliati ricevuti da tanti finti conoscitori del mondo. A meditare sui vuoti complimenti, sulle piaggerie servili da cui si è lasciato evidentemente troppo sedurre. Ma non solo. La scelta della solitudine, proprio quella scelta, sarebbe stata la massima prova data al Paese della sua unicità. Della sua radicale diversità rispetto agli «altri»: quindi l’inizio migliore per la riscossa.
Inevitabilmente la sua assenza dalla scena ne avrebbe fatto ogni giorno sospirare o temere il ritorno; che in quel caso, sì, tra l’altro, avrebbe potuto prendere le forme più impreviste e forse di maggior successo.
Per esempio la nascita di un partito nuovo e veramente suo, che non sia il frutto di un’ennesima scissione della Sinistra bensì di una decisione meditata e perseguita. Quel partito nuovo che solo, a mio avviso, potrebbe ridare senso e vita al moribondo e ormai vuoto universo delle formazioni politiche del Paese.
Tutto questo avrebbe potuto significare la solitudine di Renzi: laddove i modi della sua presenza odierna, invece, lo schiacciano sull’immagine di una sorta di Jago dissimulato che più che alla riscossa affidata a un grande disegno sembra anelare alla semplice vendetta.
Ora Matteo Renzi deve in certo senso risalire la china. È vero: fare il dominus del governo dietro le quinte gli assicura una parte. Ma in realtà mina il suo ruolo, il ruolo con cui si era presentato sulla scena italiana. Ed è vero naturalmente che l’assenza di competitori alla sua altezza gli rende più facile qualunque cosa egli intenda fare. Ma rappresenta anche la tentazione di lasciare da parte il «Grande Gioco» nella convinzione che tanto, alla fine, a chiudere i giochi sarà comunque lui. Ciò che però potrebbe rivelarsi l’errore decisivo di una partita che di errori ne ha già visti parecchi, e commessi proprio da chi sembrava avere le migliori carte in mano.

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