venerdì 10 novembre 2017

FUGNOLI DA IL CONTRORDINE : RISPARMIATORI STATE PREOCCUPATI (UN PO' ALMENO)

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Contrordine compagni ! si diceva una volta, e l'indimenticabile Guareschi , l'inventore di Don Camillo e Peppone, ironizzava molto, con le sue spassose vignette, su questa grottesca usanza dei rossi del tempo, usi obbedir tacendo alle parole d'ordine del Partito (cambiati i tempi eh ?! ) e in difficoltà ogni qualvolta da Botteghe Scure arrivava un'inversione di rotta, dettata dall' opportunismo del momento.   Mi è venuta in mente quell'espressione leggendo l'articolo di Alessandro Fugnoli di questa settimana, decisamente diverso da quello di appena sette giorni fa ( https://ultimocamerlengo.blogspot.com/2017/11/fugnoli-torna-ottimista-e-per-il-2018.html ).
Allora il "nostro" levava quasi un inno alla gioia di vivere, con scenari economici decisamente rosei, le cui ragioni venivano puntualmente spiegate.
A distanza di una sola settimana, il quadro è assai diverso, e anche stavolta non senza motivi ben comprensibili.
Resta che i due quadri sono se non opposti, assolutamente dissimili. 
Mi piacerebbe che Fugnoli leggesse il Camerlengo e rispondesse alla perplessità rappresentata, ma non sono così presuntuoso.
Però magari qualche amico/collega glielo farà notare, ché sono certo non essere stato l'unico ad aver registrato questa inversione di almeno 90 gradi. 
Nel quadro descritto, lo scenario che più mi preoccupa è quello americano. Trump si sta confermando un azzardo non utile, anzi. Per fortuna durerà poco (un anno è già passato, tre passano in fretta, e poi si tratta di un presidente depotenziato, con il partito repubblicano niente affatto propenso ad appoggiare a prescindere i progetti presidenziali, e con la prospettiva, tra un anno, di un cambio di maggioranza al Congresso).  Ma chi verrà al suo posto ? Da questo punto di vista leggo cose che, come detto, non mi tranquillizzano affatto.  Un tempo negli USA i candidati di colore "socialista", comunque sbilanciati a sinistra, non vincevano mai. Storico il piallamento di Mcgovern da parte di Nixon .  Questo peraltro faceva sì che i democratici, pur spostandosi a sinistra, nel loro modo "liberal", non esageravano mai, e infatti , alla fine, anche Sanders ha perso le primarie con la Clinton. 
Però vi sono sondaggi che rivelerebbero come le giovani generazioni USA siano sempre più attratte dalla "strana" cosa socialista. Sarà ribellismo, sarà una crescita di insicurezza, con la trasformazione del mondo del lavoro, più precario e meno remunerato anche oltre oceano. Insomma, i giovani americani sembrano credere sempre meno ai miti tipici del capitalismo liberista : il self made man, la mano invisibile di Smith che muove gli egoismi individuali verso un finale benessere comune, le opportunità continue, per cui se cadi, sicuramente ti rialzi (oddio, questo lo canta anche la Mannoia... ).
Miti suggestivi, per alcuni, ma che sicuramente alla base necessitano di fiducia nelle proprie capacità, per la quale non si sente bisogno di uno Stato Paternalistico onnipresente. Oggi invece questo padre è desiderato, e pazienza se poi è anche un po' padrone. 
Brutta roba....

Comunque, ecco il "contrordine" , e buona lettura. 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

L’INNESCO


Quello che potrebbe fermare il rialzo. Un aggiornamento

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di ALESSANDRO FUGNOLI 

L’economia globale attraversa una fase di crescita forte e sincronizzata. Le banche centrali si mantengono espansive. L’inflazione non è preoccupante. Gli utili crescono. Molti cominciano a pensare che siamo entrati davvero in una nuova era di crescita senza inflazione e non riescono a trovare una ragione per cui il rialzo delle borse si debba fermare.
È davvero così? Proviamo a passare in rassegna i fattori di rischio. Alcuni sono nuovi di fiamma.
Arabia Saudita. La caduta del petrolio e l’idea che i combustibili fossili siano in declino strategico hanno iniziato a corrodere alle fondamenta un paese che appariva solido solo perché era immobile. L’indebolimento strutturale arriva poi nel momento peggiore, in una fase in cui l’Iran stringe l’assedio a sud con lo Yemen, a est con il Qatar e a nord con un Iraq filo-iraniano e un Kurdistan indebolito, con una Siria alauita che si sta rimettendo in piedi e con un Libano che ogni giorno scivola sempre più nelle mani degli sciiti di Hezbollah.
L’elite saudita si aggrappa agli Stati Uniti e a Israele, ma in questo processo si divide perché trova un’America divisa. Il giovane principe Mohammad bin Salman è salito al potere con l’appoggio di Trump con un colpo di mano che ha emarginato il cugino obamiano e ora sta attaccando il ricchissimo e antitrumpiano Al-Waleed. George Friedman, uno stratega geopolitico dotato di grande profondità di pensiero, non esclude la possibilità di una guerra civile o di un nuovo colpo di stato. Il tutto con l’Iran alle porte che, per farsi sentire meglio, manda un missile sulla capitale Riyadh. L’Iran conta grandi amici in Russia, in Europa e tra i democratici americani ed è in buona forma economica grazie all’accordo sul nucleare che ha posto termine alle sanzioni.  

Il petrolio ha reagito nel passato recente a crisi di produzione in Libia e Nigeria con qualche dollaro di rialzo. Una crisi in Arabia provocherebbe rialzi ben maggiori e occorrerebbero comunque settimane ai produttori americani per cercare di compensare l’eventuale minore produzione saudita.
Corea. È il momento della diplomazia, ma non c’è da farsi troppe illusioni. C’è diplomazia da due decenni, sul nucleare coreano, e nel frattempo le atomiche diventano sempre più pericolose.
America. La vittoria democratica in Virginia e New Jersey cambia completamente il quadro politico e apre la strada a una riconquista del Congresso fra dodici mesi e della Casa Bianca nel 2020. Tra i democratici si profilano Joe Biden, il più capace di parlare agli stati industriali passati a Trump, e, a sinistra, Sanders e la Warren. I clintoniani, che hanno controllato il partito anche negli anni di Obama moderandone la deriva a sinistra, sono in rotta. I radicali, emarginati con imbrogli dalla Clinton l’anno scorso, questa volta staranno attentissimi al controllo della macchina elettorale. Sanders e Warren significano reregulation aggressiva, tasse pesanti, smembramento delle banche, lotta al settore farmaceutico e al petrolio e politiche antibusiness di ogni genere.
Riforma fiscale. Dopo il fallimento della riforma sanitaria, è per i repubblicani l’ultima possibilità di evitare il ritorno all’opposizione, ma questo non ne rende necessariamente più facile il cammino. Da una parte c’è infatti l’istinto di sopravvivenza di gruppo che imporrebbe di trovare un accordo, dall’altra c’è quello individuale che chiede di uniformarsi agli umori del proprio elettorato, diversi in ogni collegio. C’è poi una parte del partito che odia Trump al punto da preferire una sconfitta storica a una riconferma di Trump.
In ogni caso la sconfitta in Virginia e New Jersey serve a ricordare che non votano le imprese ma le persone e che questa riforma è tutta sbilanciata a favore delle imprese e fa molto poco per le persone. È possibile quindi che l’alleggerimento della corporate tax, già incorporato dai mercati in molti calcoli sugli utili 2018, sia minore del previsto o sia introdotto solo gradualmente nel corso dei prossimi anni, oppure che sia temporaneo e limitato ai prossimi dieci anni.
Cina. Come sempre, tutto è stato perfetto e scintillante fino al Congresso, ma già dal giorno dopo la sua conclusione abbiamo visto in rapida sequenza il  rialzo dei tassi, un rallentamento della crescita e moniti sull’elevato livello della borsa. Per fortuna, finora, niente di particolarmente serio, ma comunque una perdita di momentum.
Positioning. All’apparenza non è un problema, perché la percentuale di azionario nei portafogli non è particolarmente alta. Guardando meglio, però, si vede che la parte obbligazionaria, in questi anni, ha visto crescere la componente corporate, spesso di qualità non eccelsa. Una discesa della borsa farebbe bene ai governativi a basso rischio, ma nuocerebbe ai corporate. I portafogli, a quel punto, sarebbero esposti su quasi tutta la linea. Si consideri anche l’esplosione degli Etf, comprati spesso da un pubblico avverso al rischio e meno disposto a sopportare la volatilità. L’insieme di questi fattori potrebbe generare in qualsiasi momento il desiderio di alleggerire e accentuerebbe la volatilità.
Disruption. Bob Lutz, che ha passato una vita nell’auto, ha scritto che le auto fra vent’anni saranno come i cavalli, che una volta erano dappertutto e oggi sono solo nelle tenute dei ricchi che amano cavalcare nel verde. È un tema strutturale, si dirà, ma che il settore si prepari a spendere un sacco di soldi per un elettrico che sarà meno profittevole lo si comincerà già a vedere nelle prossime trimestrali. E l’auto non è certo il solo settore che sta per entrare nella bufera. Pensiamo solo a energia, farmaceutica, distribuzione e finanza.
Ci fermiamo qui, ricordando che a volte non c’è bisogno di un innesco per avviare una correzione. Ogni tanto succede infatti che il mercato vada in autocombustione e trovi poi strada facendo le giustificazioni per la discesa.

Non vogliamo chiamare un bear market. Ci limitiamo a pensare che per una correzione, quando sarà il momento, basterà la derivata seconda, ovvero un indebolimento del flusso di sorprese positive, senza che siano necessarie sorprese negative. Senza arrivare al livello della Bundeswehr, che si prepara a scenari di dissoluzione dell’Europa e dell’alleanza atlantica, gli investitori faranno bene a sottoporre il loro portafogli a qualche forma di stress test, superato il quale potranno continuare a godere di quello che il bull market vorrà ancora concedere.   

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