Riporto un bell'articolo di Antonio Polito, uno dei notisti che apprezzo di più.
Sintetizzando la sua lucida e scorrevole analisi, mi pare di poter dire che sicuramente questo ultimo mese ha un perdente politico certo : il centro destra e ovviamente i suoi capi , Berlusconi e Bossi. Ma Bersani, che compare gongolante da una tv all'altra - senza che nessuno osi chiedergli conto del suo opportunismo e del suo dietro fronte assoluto in merito alle privatizzazioni , che erano state il suo marchio di fabbrica da ministro dell'industria nel governo Prodi - è veramente il vincitore ? Sta cavalcando la corrente protestataria e così sposta sempre di più il suo partito a sinistra. Se non sta attento perderà del tutto il contatto col centro moderato di Casini. Per molti , della sinistra radicale, questo è certamente un bene. Ma lo è in assoluto ? E, come dice Polito ma non solo lui, basta per vincere le elezioni POLITICHE ?.
di ANTONIO POLITO
Se il voto delle Amministrative era stata una sberla, questo è un Ko per il centrodestra. Non solo per i numeri. I quali, però, sono imponenti. A Milano e a Napoli, vittoria e sconfitta si giocarono su poche decine di migliaia di voti. Qui si tratta di quasi ventisette milioni di italiani che sono andati alle urne o nel deliberato intento di colpire Berlusconi, oppure mettendo tranquillamente nel conto questo effetto politico (compresi Maroni e Zaia, Polverini e Alemanno). Ma c’è di più. Se alle Amministrative il centrodestra aveva perso per la diserzione di tanti suoi elettori che si erano astenuti, stavolta ha perso per la partecipazione attiva di milioni di suoi elettori in dissenso. Curiosamente, ancora una volta tocca a un referendum suonare la campana finale di un’era politica. Quello sul divorzio del ’ 74 chiuse l’epoca d’oro della Dc e ne avviò la lunga crisi; quello sulla preferenza unica nel ’ 91 annunciò l’esplosione del regno di Craxi; questo del 2011 sarà molto probabilmente ricordato come il punto più basso dell’epopea berlusconiana. Prima o poi, doveva accadere. Si compie oggi il decennio di governo del Cavaliere: se si esclude la breve parentesi del ’ 94, è dal 2001 che Berlusconi governa l’Italia, per otto anni su dieci. La Thatcher ha retto undici anni. Tony Blair dieci. Gli elettorati democratici sono pazienti e tolleranti, ma ogni tanto si alzano in piedi come giganti e si scrollano dalle spalle il passato. Il verdetto elettorale della primavera italiana è così inaspettatamente netto che non vale neanche più la pena di discettare sulle cause di questa crisi di rigetto, se sia più etica o estetica, politica o economica. Fosse il Pdl un partito vero come i Tories o il Labour inglese, oggi inviterebbe il suo leader storico a sacrificare se stesso per salvare la ditta. Ma qui non sembra esserci in giro un Major che possa prendere in corsa il testimone e magari resistere un’altra legislatura. La transizione dunque non sarà né ordinata né rapida. Ci aspettano mesi convulsi. Berlusconi proverà di certo a succedere a se stesso, ma ormai la Lega ha fretta di slegarsi, e l’opposizione sente l’odore del sangue, penserà solo a sfruttare il magic moment elettorale. A differenza degli altri referendum «epocali» , che modernizzarono l’Italia, in questo caso però il gorgo del berlusconismo trascina con sé anche quelle poche velleità di riforma che avevano percorso il governo. La valanga travolge certamente una delle cose peggiori del centrodestra, la legge ad personam per antonomasia; ma cancella anche due decisioni lungimiranti, e cioè la riapertura dell’opzione nucleare e l’introduzione di un po’ di concorrenza nel settore dei servizi pubblici. Ogni volta che ci lamenteremo per la mancata crescita (0,25%di Pil all’anno per dieci anni, secondo l’impietoso calcolo dell’Economist) dovremo ricordarci che in Italia non solo non si possono abbassare le tasse, ma non si può nemmeno tagliare la bolletta dell’energia o ridurre i deficit delle municipalizzate. E così è davvero difficile crescere. Bisogna dunque ammettere che il vero trionfatore di questa tornata elettorale è Antonio Di Pietro. È stato lui che ha avuto l’ardire di raccogliere le firme sul legittimo impedimento alle feste dell’Unità, scommettendo sulla spallata elettorale a Berlusconi quando il Pd temeva le urne come i bambini temono l’uomo nero. È stato lui ad avere la furbizia di «spoliticizzare» l’iniziativa quando il disastro di Fukushima gli ha dato la spinta insperata verso il quorum. Ed è stato lui a trascinarsi così dietro Bersani, in rincorsa per far dimenticare il suo passato da liberalizzatore scritto sull’acqua. Così, se da una parte il referendum segna senza dubbio una sconfitta storica di Berlusconi, come Bossi apertamente schierato per l’astensione, rivelando una perdita di sintonia con il Paese che per un grande comunicatore è già una sentenza; dall’altra parte non si può davvero dire che la coalizione arcobaleno che lo ha stravinto rappresenti un’alternativa pronta e spendibile, gonfia com’è di sospetto anti mercato e di rifiuto del privato e della concorrenza. Come i radicali potrebbero testimoniare, una cosa è vincere i referendum e un’altra è vincere le elezioni per il governo del Paese.
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