venerdì 2 settembre 2011

DISASTRI ECONOMICI : AGOSTO è FINITO, SIAMO ANCORA VIVI

Sono grato a Gianluca Rubeo, mio amico e serio consulente personale nel delicato campo del risparmio, per avermi fatto conoscere l'esperto di economia e finanza Alessandro Fugnoli . Settimanalmente mi invia gli articoli di questo brillante economista , che io trovo praticamente sempre interessanti e non  banali .
Fugnoli a tre pregi grandi : è a) scrive bene e con chiarezza b) ricorre a metafore suggestive e semplificatrici c) è un ottimista !!!.
Di questi tempi la terza è dote rara e preziosa.
Se sia anche BRAVO come consulente, questo non lo saprei dire non avendo capitali da investire secondo i suoi consigli. Certo, ho letto che anni fa ci fu chi spinse clienti ed amici a comprare ORO scordandosi la Borsa Azionaria. Tutta quella gente ad agosto rideva....Io Fugnoli lo leggo da più di un anno e non ricordo un suggerimento così "aureo", in tutti i sensi. Magari mi sarà sfuggito....
Bellissimi, perché ficcanti e divertenti,  i riferimenti ai comportamenti nazionali, specie degli USA.
Certo gli articoli di Fugnoli sono sempre piuttosto lunghi, però vi assicuro che vale la pena dedicarci 10 minuti del vostro tempo. Magari iniziate dalle cose in rilievo, se vi incuriosiscono (sono certo di si) , leggete tutto.
Buona Lettura

DABDA
ELISABETH KABLER ROSS
Le cinque fasi del dolore
Nel 1969 la psichiatra svizzera Elisabeth Kubler-Ross pubblicò in America il suo famosissimo On Death and Dying. Dopo avere studiato e intervistato 500 malati terminali elaborò un modello, conosciuto con l’acronimo di Dabda, che sintetizza la successione dei comportamenti e degli stati d’animo di fronte al profilarsi della fine.
Dabda sta per Denial, Anger, Bargaining, Depression e Acceptance. Si inizia con il negare il problema (“Non può essere, sto benissimo”), poi scoppia la rabbia (“Non è giusto”). Segue la contrattazione (“Adesso faccio il bravo, mi curo e guadagno tempo”). A queste fasi fortemente emotive subentra la depressione (“Non c’è niente da fare”) che lascia il posto, dopo una lunga elaborazione, all’accettazione.
Il Dabda si applica a ogni forma di perdita irreversibile e catastrofica di qualcosa di caro. Si pensi a una perdita di status e di ricchezza oppure, caso ancora più interessante, al processo di disintossicazione da droghe o da comportamenti compulsivi.

Il Dabda è da 40 anni il paradigma di consenso in campo medico, ma i mercati finanziari non lo hanno ancora adottato. Vedono profilarsi la fine del modello “welfare e debito” che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni negli Stati Uniti e in Europa occidentale e la vivono come l’inizio di un processo distruttivo di rottura progressiva del patto sociale, rovina economica, deriva populista, guerra civile e tirannide.
I mercati adottano cioè, più o meno consapevolmente, lo schema degli anni Venti e Trenta. Dimenticano che, a quel tempo, le masse erano state nazionalizzate e avevano imparato a organizzarsi negli eserciti della Grande Guerra, mentre oggi sono atomizzate e disperse. L’età media, a quel tempo, era la metà di oggi e il sangue ribolliva il doppio. Lo stock di ricchezza era più basso, gli ammortizzatori non esistevano e la disoccupazione era molto più alta.
La Grecia è il paese che aveva adottato più di tutti il modello “welfare e debito”. Quando il modello è entrato in crisi ed è iniziato il doloroso processo di disintossicazione i mercati hanno visto nelle manifestazioni in Piazza della Costituzione e negli scontri davanti al parlamento l’inizio della guerra civile. In realtà la fase della rabbia è durata pochi mesi, le manifestazioni sono state sempre meno imponenti e poi sono cessate. Riprenderanno, certo, in parallelo alle privatizzazioni, ma saranno probabilmente sempre più frammentate. Il grosso della società greca si inabissa nel privato, riscopre l’orto nella casetta di campagna, taglia le spese e si adatta.
Con il Pil ancora in discesa, dopo 18 mesi dallo scoppio della crisi la Grecia sta già entrando nella fase di depressione e, in alcuni settori, perfino di accettazione. Ad Atene governano ancora i socialisti di Papandreou, non i Trenta Tiranni.
La Spagna degli indignados appare in superficie nella fase della rabbia, ma i tre quarti degli spagnoli si apprestano a votare per il Partito Socialista, che ha gestito la crisi con una certa abilità, o per il Partito Popolare, che propone ancora più rigore. Non si vedono derive populiste o autoritarie. La disintossicazione spagnola è graduale e ordinata.

L’Italia è uscita dalla fase della negazione (noi non siamo tra i Pigs) e sta entrando in quella della rabbia. Dopo le manovre avremo bisogno di rattoppi continui, perché i mercati non daranno tregua finché dalla Germania li si lascerà fare. In fondo, i più convinti che ce la possiamo fare da soli (o con qualche aiuto temporaneo da parte della Bce) sono proprio i tedeschi.
Gli Stati Uniti sono ancora nella fase di negazione. Il mondo è il loro pusher. Possono continuare a indebitarsi quanto vogliono.
La negazione, si noti, non è in questo caso l’assenza di consapevolezza del problema, ma la mancanza del senso di urgenza. Gli Stati Uniti si sono riempiti la casa di libri di diete di ottima qualità (le varie commissioni bipartisan sul debito hanno lavorato molto bene) e si sono messi a posto la coscienza leggendoli con attenzione. Essendo rimasto un po’ di senso di colpa hanno deciso di tagliare progressivamente la frutta e la verdura, continuando a mangiare i dolci e le patate fritte. Lo psicodramma di agosto sul debito (e quello che forse vivremo verso fine anno) non ha ridotto di un grammo il consumo di grassi a lenta accumulazione (pensioni, sanità e spesa militare) e ha tagliato gli integratori alimentari e le vitamine, quelle spese discrezionali certamente discutibili, ma che ridotte adesso deprimono un’economia già fragile.
Per fortuna qualcuno (i baltici, l’Europa centrale e balcanica) ha già completato il ciclo di disintossicazione, dimostrando che è possibile uscirne vivi senza bisogno di soluzioni autoritarie. E’ significativo che siano i più poveri ad essersi adattati più in fretta. L’Irlanda, che non è così ricca neanche lei, è già molto avanti.
Quello che questi paesi hanno in comune è la flessibilità dei fattori da una parte e un minimo di coesione nazionale dall’altra. E’ paradossale, ma flessibilità e coesione sono anche il frutto, in Europa orientale, di 45 anni di occupazione sovietica che hanno tenuto vivo il nazionalismo locale ed esaltato l’arte di arrangiarsi in circostanze difficili.

L’Irlanda, dal canto suo, è flessibile da sempre. La sua popolazione si dimezza o raddoppia due o tre volte al secolo (oggi è la metà di 170 anni fa). La sua emigrazione (come quella polacca in Inghilterra negli anni scorsi, ora rientrata in patria quasi tutta) è considerata una risorsa e non ci si straccia le vesti per i laureati che vanno all’estero. I mercati, che ancora in primavera scontavano una lunga fase di rabbia sociale e il ripudio finale del debito, si sono messi a comprare governativi irlandesi con una certa convinzione.
Insomma, in fondo al Dabda non c’è la fine di tutte le cose ma una possibilità di rinascita.
Fuori da questa grande clinica di disintossicazione che è diventato il mondo occidentale è rimasta in pratica solo la Germania. I mercati non smettono un minuto di pensare che i tedeschi non ne possano più e non vedano l’ora di uscirsene dall’euro con gli amici olandesi e finlandesi.
Forse, ma adesso proprio no, sarebbe il momento peggiore. Il boom tedesco negli ultimi mesi ha visto anche una ripresa dei consumi interni, ma è stato trainato come al solito dalle esportazioni, in particolare verso l’Asia. Ora l’export rallenta e la Germania si scopre vulnerabile. La crescita era già prevista dalla Bundesbank in rallentamento, ma un conto sono le stime e un altro la realtà che si presenta all’improvviso.

Solo un tedesco matto uscirebbe dall’euro in questo momento. Immaginiamo un neomarco a 1.75 contro dollaro che deve competere con una neolira a 1.15. Si accusa sempre la Merkel di pensare troppo alle elezioni e poi si immagina che voglia sfasciare l’euro e andare al voto con il paese in piena recessione. In realtà non solo la Germania non vuole uscire, ma non vuole nemmeno che esca l’Italia. Meglio chiudere un occhio sulla Bce che compra i Btp, facendo votare contro il rappresentante tedesco per farlo vedere agli elettori, sapendo benissimo che il consiglio avrebbe approvato comunque. Senza considerare che sarebbe pericoloso per la Germania diventare troppo dipendente dalla Cina (che copia in fretta i treni e i pannelli solari tedeschi e un giorno venderà i suoi da noi) e rinunciare al cortile di casa europeo.
Si è parlato molto di Europa perché siamo l’anello debole del mondo e i mercati non vedono l’ora di testare la Bce, in settembre e ottobre, sugli acquisti di titoli italiani. A chi è preoccupato che questi acquisti creino moneta e inflazione ricordiamo che la Bce compra in pratica titoli venduti dalle banche tedesche e francesi, che a loro volta depositano il ricavato presso la stessa Bce. Resta tutto in famiglia e (purtroppo) non esce niente a finanziare l’economia reale europea.
I dati americani di luglio e agosto, a ben vedere, non sono né migliori né peggiori di quelli di 6 o di 12 mesi fa, il Brent è allo stesso livello di febbraio, quando eravamo tutti contenti. La Cina è ripiegata su se stessa come 6 o 12 mesi fa, ma continua a crescere e rivaluta, come le si era chiesto di fare. Il fabbisogno italiano, nonostante gli sforzi dei mercati per aumentare la spesa per gli interessi, è più basso, non più alto, di 6 o di 12 mesi fa. Le banche di tutto il mondo non stanno molto bene, ma hanno più capitale, più liquidità e meno leva di 6 o 12 mesi fa. Va benissimo essere nervosi e agitarsi, il mondo sta certamente per finire, ma non molto più di 6 o di 12 mesi fa.

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