Ieri, da Lerner, cercava di spiegare ad un giovane precario e ad un maturo licenziato come la riforma del mercato del lavoro fosse indispensabile. Mieli ricordava infatti:
1) il disastro simil Grecia è stato allontanato ma NON eliminato. E i mercati , che registrano un non apprezzato rilassamento dei governi sul piano del rigore, stanno brontolando, come si vede dallo spread spagnolo (e si teme presto anche italiano).
2) il sistema del "posto fisso" così come è stato conosciuto dagli anni 70 non è più sostenibile. Bisogna costruire un sistema che permetta la possibilità che il lavoratore che viene estromesso da un'azienda in difficoltà trovi con sufficiente rapidità una nuova occupazione e questo tramite due strumenti di sostegno: validi corsi di formazione, un indennizzo che copra il periodo di disoccupazione. La Cassa integrazione tutela solo le imprese più grandi, ha costi che incidono sulla possibilità di dare aiuto ad altri lavoratori, ora esclusi, e ha un'impostazione ormai meramente assistenziale, un patto tra imprese e sindacati a spese dello Stato (e della collettività). Un cambiamento di tutto questo oggi non riusciamo nemmeno ad immaginarlo, e il mondo del lavoro si divide rigorosamente in due settori: quello dove solo una crisi aziendale pre fallimentare giustifica i tagli del personale e quello dei precari a vita.
In Italia si vuole che il primo si estenda a tutti. La teoria dei "pasti gratis" che viceversa non è attuabile.
3) Perché ci siano risorse per una riforma valida, con nuovi ammortizzatori sociali, più efficienti e più generali, è INDISPENSABILE tagliare la spesa pubblica.
EVVIVA!!!!! Ogni tanto qualcuno lo dice!!!!!
La pasionaria stantia della Bindi, i vetero dinosauri dei sindacati, tutti a riempirsi la bocca con l'evasione fiscale, come se non sapessero 1) abbattere l'economia sommersa in certe zone depresse significherebbe NON avere più alcuna economia in quelle realtà. Quindi più disoccupati e MENO entrate, perché quella gente, lavorando, poi in qualche modo alimenta il volano economico , i consumi e quindi le entrate (questo non vuol dire che vada bene, ma, come dicono gli economisti VERI, l'emersione deve essere accompagnata con la creazione di ALTERNATIVE, non basta la sola repressione 2) anche recuperando i famosi 120 miliardi citati da Befera ovunque va, il Debito pubblico resterebbe una VORAGINE!!
E questo il buon Mieli. Ma ieri doveva essere festa perché anche Sergio Rizzo, che in genere si fissa sulla Casta politica, ha invece dedicato un bell'approfondimento proprio sul tema della Spesa Pubblica, con una coraggiosissima stoccata finale sulla realtà onerosissima degli impiegati statali e/o pubblici.
Assolutamente da leggere e diffondere
Che fine ha fatto il piano taglia-spese annunciato da Piero Giarda all`inizio dell`anno? Il ministro aveva ammesso che non sarebbe stato «un compito facile».
Ma trascorsi ormai tre mesi è lecito domandarsi quali risultati abbia dato la spending review, ossia la revisione della spesa pubblica che avrebbe dovuto consentire una «riduzione chirurgica» delle uscite statali. E la risposta, purtroppo, è ancora molto deludente. Secondo il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, «per far quadrare i conti» sarà inevitabile (ha usato il termine «automatico») aumentare di nuovo l`Iva. Altre tasse, dunque.
Altre tasse, dopo l`inasprimento delle aliquote massime dell`Irpef, l`incremento delle addizionali locali, la reintroduzione dell`imposta sugli immobili, il rincaro delle accise sulla benzina e un primo aumento dell`Iva. Altre tasse, e nessun taglio come si deve.
Poche settimane fa il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, ha confermato le previsioni del governatore della Banca d`Italia Ignazio Visco, pronosticando per la pressione fiscale il rapido superamento della soglia del 45%. Saremo i più tassati d`Europa dopo danesi, belgi e svedesi, però con un livello dei servizi decisamente inferiore.
E la recessione, diciamo la verità, c`entra fino a un certo punto. Il fatto è che un governo così determinato a intervenire sulle pensioni e sull`articolo 18 non lo è stato finora altrettanto nei confronti di una spesa pubblica inefficiente e parassitaria.
Spiega uno studio edito dal Mulino per la fondazione Astrid e curato da Luigi Fiorentino, che nel decennio «orribile» (definizione di Bankitalia) durante il quale la ricchezza prodotta procapite è diminuita ín termini reali dí quasi il 5%, le uscite correnti al netto degli interessi sono salite dal 37,6 al 43,2% del Pil.
Raggiungendo il 51,9% se si considera anche il costo del nostro enorme debito pubblico e i magri investimenti statali.
La Cgia di Mestre ha calcolato che in quel decennio la spesa corrente è cresciuta di 142 miliardi di euro. La macchina pubblica, insomma, ingoia ormai più di 800 miliardi l`anno.
La Ragioneria generale dello Stato dice che i nostri costi di «amministrazione generale» rappresentano il 18,4% del totale delle uscite, sei punti più della Germania. Se soltanto spendessimo come i tedeschi per far funzionare la burocrazia, risparmieremmo una quarantina di miliardi l`anno. Il triplo rispetto a quanto Giarda prevede di ottenere, nella migliore delle ipotesi, dalla spending review.
Vero, verissimo: non è un compito facile. Sappiamo che c`è molta sabbia negli ingranaggi, che ci sono i problemi sindacali, gli ostacoli delle autonomie, le lobby che frenano.
Ma anche per questo ci vorrebbe più coraggio.
Lo studio Astrid rivela, per esempio, che nel 2009 le convenzioni Consip non arrivano al 2% della spesa per beni e servizi, quando è dimostrato che alle pubbliche amministrazioni il metodo delle aste online garantisce una economia media del 20%. E siccome lo Stato spende ogni anno per questo capitolo 140 miliardi, una decina almeno se ne potrebbero facilmente risparmiare utilizzando in modo serio il sistema della centralizzazione informatica degli acquisti.
C`è poi un tema caro al l`economista Mario Baldassarri: i 44 miliardi di trasferimenti e sussidi alle imprese private e pubbliche. Soldi che in gran parte non accrescono l`efficienza aziendale né la concorrenza. Da anni si parla di metterci mano, ma nessuno lo fa. Eppure sarebbe sufficiente, dopo aver eliminato quelli palesemente inutili, trasformare tutti i sussidi rimanenti in detrazioni fiscali a vantaggio dell`occupazione per limitare il salasso. Ed eliminare molti abusi.
Una parte consistente della spesa pubblica è in mano alle Regioni: oltre 200 miliardi l`anno. Metà se ne va per la sanità, con differenze enormi e giustificate in troppi casi solo da corruzione e malaffare, che dovevano essere livellate con l`applicazione dei «costi standard». Forse l`unico aspetto virtuoso del cosiddetto federalismo fiscale. Finita ora sul binario morto la pratica federalista, però, lo stesso destino sembrano aver subito anche i costi standard. E non si capisce perché.
L`altra metà della spesa locale serve a far marciare tutto il resto, comprese quelle macchine ipertrofiche e sprecone che sono diventate le amministrazioni regionali. Ogni siciliano spende 353 euro l`anno per mantenere gli oltre 20 mila dipendenti della Regione: e senza contare i 27 mila precari spesso stipendiati a vuoto.
Ogni lombardo, invece, di euro ne spende 21: un diciassettesimo.
Differenza che non ha nulla a che vedere con la maggiore autonomia statutaria della Sicilia. Anche perché, limitandoci alle Regioni ordinarie, i 21 euro procapite della Lombardia si confrontano con i 173 del Molise. E se soltanto si decidesse di adeguare al parametro della Lombardia le spese per il personale di tutti questi enti, perfino escludendo quelli a statuto speciale, il risparmio sarebbe di oltre 600 milioni l`anno. Esattamente quanti se ne potrebbero racimolare applicando lo stesso parametro al costo dei vari consigli regionali. Economie totali: 1,2 miliardi. Somma alla quale si potrebbero aggiungere risparmi ancora più significativi sugli altri costi della politica. Da anni, per esempio, si discute della riduzione del numero dei parlamentari.
Si dovrebbe quindi intervenire sul costo abnorme degli organi costituzionali come anche sul meccanismo di finanziamento dei partiti, sfuggito a ogni controllo.
Per non parlare delle Province, che ci costano una quindicina di miliardi l`anno e che tutti, a parole, dicono di voler abolire.
Va da sé che una spending review seria non potrebbe non prendere in esame il capitolo più consistente: i soldi che servono a pagare 3 milioni e mezzo di dipendenti. Fra il 2000 e il 2008 la spesa per le retribuzioni lorde dei dipendenti pubblici è lievitata del 40%, quasi il doppio dell`inflazione. La paga media procapite ha registrato un incremento del 36,4%: il triplo, in termini reali, degli stipendi privati.
Mentre il numero dei dipendenti pubblici, nonostante il blocco del turnover e l`informatizzazione, è ancora salito del 2,5% a causa delle assunzioni a tempo determinato.
Ed è chiaro che il problema dei problemi è questo.
Come affrontarlo? Qualche anno fa il senatore Nicola Rossi aveva proposto provocatoriamente i prepensionamenti di massa. Per ogni dieci esodi si sarebbero potuti assumere due giovani, con un risparmio complessivo assicurato del 20%. Mancò poco che lo sbranassero, da destra a sinistra.
E oggi un`idea del genere, per quanto tecnicamente niente affatto peregrina, sarebbe ancora più improponibile.
Ma qualcosa bisognerà fare. In un momento in cui si chiede ancora più flessibilità in uscita a tutti i lavoratori, è accettabile che tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici conservino immutato il privilegio dell`inamovibilità?
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