Non mi addentro in questa disputa, nella quale non mi sento sufficientemente competente.
Lo cito perché mi interessa quando pubblicato dall'INDIPENDENTE, uno dei tanti siti on line di informazione, che riporta numerose dichiarazioni del premio nobel per l'economia nel 1976 riguardo l'introduzione dell'euro.
Vi suggerisco di leggere perché i toni sono lontani dalle fumosità dottrinarie e assolutamente non imperativi (come erano sempre quelli di Tremonti che trattava tutti da deficienti ignoranti, l'unico sapiente era lui. Pensa se non lo fosse stato...), quindi non urtanti anche per chi non la pensa alla sua maniera.
In sostanza, provo a sintetizzare, Friedman sostenne che una moneta unica per paesi così diversi e oltretutto "rigidi" correva il rischio di non poter reagire con duttilità, velocità, a situazioni di crisi "asimmetriche".
Abbiamo ormai capito quali sono stati i vantaggi dell'Euro: una moneta "solida", che garantisce bassa inflazione e stabilità monetaria. Gli svantaggi, secondo la regola aurea per cui i pregi sono l'ombra dei difetti, sono che, in caso di necessità, non si può ricorrere alla svalutazione per dare più competitività al proprio export e diminuire, di fatto, il valore del proprio debito. In più, non si può ricorrere all'emissione di moneta (finora l'unica cosa che, dal 2008, ha tenuto a galla USA e GB).
Insomma, se le cose vanno bene, i ricchi saranno più ricchi ma anche i poveri se la caveranno e quindi "tutto va bene madama la marchesa". Ma se le cose vanno male, come ora, i ricchi ce la fanno, e i poveri affondano, perché non possono "difendersi".
L'idea di usare la MONETA come acceleratore dell'Unione è stata sbagliata. Questo ormai è certificato.
Come si rimedia? Non mi pare che al riguardo le idee siano chiare.
Buona Lettura
E poi non ditemi
che non vi avevo avvertiti!”, potrebbe benissimo esclamare l’economista Milton
Friedman (1912-2006), se fosse ancora vivo. Il padre della “Scuola di
Chicago”, premio Nobel per l’Economia nel 1976, per molti italiani e americani
è diventato sinonimo del “liberismo”. Fin da prima dell’introduzione della
valuta comune europea aveva previsto la crisi che stiamo vivendo da tre anni a
questa parte.
Nel 1998, intervistato da “Liberal” (che allora
era mensile), Friedman aveva avvertito gli italiani: “Supponete che le cose
vadano male e che l’Italia sia in difficoltà. Con un lira indipendente, il
problema può essere limitato intervenendo sul tasso di cambio della valuta. La
svalutazione della lira potrebbe, in effetti, contribuire a diminuire i prezzi
e i salari di un’economia in crisi, in rapporto a quelli delle economie dei Paesi
vicini, aumentando la competitività relativa. Il vantaggio tattico di questo
singolo meccanismo di correzione dei prezzi, con l’adozione di una valuta
comune, non sarebbe più disponibile”. In caso di “shock asimmetrici”, nei Paesi
più fragili, costretti a coesistere con la stessa valuta di quelli più forti,
prevedeva Friedman, “il futuro dell’euro sarebbe molto più difficile”. Sempre
nel 1998, aggiungeva: “Se l’Europa sarà fortunata e per lungo tempo non subirà
shock esterni, i cittadini si adatteranno alla nuova realtà e l’economia
diventerà flessibile e deregolata, allora tra 15 o 20 anni raccoglieremo i
frutti dati dalla benedizione di un fatto positivo.
Altrimenti (l’euro, ndr)
sarà una fonte di guai”.
Ma si è realizzata la peggiore delle ipotesi. Prima
di compiere i suoi primi 15-20 anni, l’eurozona ha subito lo shock della grande
crisi finanziaria del 2008. E, nel frattempo, nessuna delle sue economie
(tantomeno quelle italiana, greca, spagnola e portoghese) era diventata “più
flessibile e deregolata”. Anzi, in Italia (e negli altri Paesi in crisi) ci
ritroviamo ancora con mercati rigidamente regolamentati dallo Stato. E quindi:
disastro.
Nel
2000, all’indomani dell’introduzione della moneta comune europea, Milton
Friedam diceva, in una conferenza tenuta alla Banca del Canada: “Io credo che
l’euro stia vivendo una fase di luna di miele. Spero che abbia successo, ma le
mie aspettative sono veramente basse. Io penso che le differenze, fra i vari
Paesi che l’hanno adottato, siano destinate ad accumularsi. E che i primi shock
asimmetrici possano peggiorare il quadro. Ora come ora, l’Irlanda è ben diversa
dalla Spagna e dall’Italia e necessita politiche monetarie completamente
differenti. Da un punto di vista puramente teorico, è difficile credere che
questo sia un sistema monetario stabile nel lungo periodo”. Nella stessa
occasione, Friedman ricordava che: “Se guardiamo al passato recente, (i Paesi
europei, ndr) hanno tentato la via dei tassi di cambio fissi che, in ogni
occasione, non hanno retto. Abbiamo visto le crisi del 1992 e 1993. Prima dei
tassi di cambio fissi, l’Europa aveva il ‘serpente monetario’ e nemmeno quello
aveva retto. Il verdetto del passato non è favorevole all’euro. Ora ha solo un
anno di vita. Diamogli tempo per sviluppare i suoi problemi”.
In un’altra intervista rilasciata in Italia, questa volta
al Sole 24 Ore (nel 2003), Friedman notava anche gli svantaggi per le
economie più forti dell’eurozona: “Paesi come Francia e Germania hanno accettato
di entrare nell’euro a tassi di cambio che sopravvalutavano di molto le loro
valute. E’ chiaro, oggi è facile dirlo guardando indietro e non ho dubbi che le
decisioni furono prese in assoluta buona fede. Detto questo ora è l’euro a
trovarsi in una situazione di sopravvalutazione, ed economie come quella
tedesca o italiana che poggiano molto sull’esportazione ne soffriranno, con in
più la frustrazione di poter fare ben poco in proposito. In un contesto di
difficoltà, la risposta tradizionale la conosciamo: c’è la svalutazione
competitiva, che oggi non è più possibile per i singoli Paesi. Il nocciolo
della questione oggi non è il Patto di stabilità, ma l’euro: presto finirà per
collassare, o quanto meno per svalutarsi di molto perché secondo me, ai livelli
attuali, scardina le economie invece di aiutarle”.
Ancora nel 2005, in una delle ultime intervista rilasciate
dal grande economista al periodico New Perspectives Quarterly
Magazine, Friedman confermava la sua tesi: “L’euro sarà più una fonte di
problemi che non di benefici”. E dava anche una spiegazione monetaria al suo
pessimismo: “L’euro è un esperimento senza precedenti. Per quanto ne sappia io,
non c’è mai stata un’unione valutaria, composta da più Stati indipendenti,
basata su una moneta fiat (a corso forzoso, ndr). Finora abbiamo conosciuto
unioni basate su monete metalliche, d’oro o d’argento, ma non su una moneta
fiat, una valuta che tende all’inflazione, emessa da entità politicamente
indipendenti”. Sette anni dopo, nel 2012, vediamo benissimo che è già in corso
un braccio di ferro fra governi nazionali e Bce, con i primi che chiedono a
gran voce di stampare più moneta e la seconda che comincia a cedere alla
pressione: Mario Draghi, l’attuale presidente della Banca Europea, sta
iniziando coi prestiti alle banche, poi si vedrà.
Riassumendo: Friedman prevedeva un futuro nero per l’euro in
caso di shock asimmetrici e spiegava la sua fragilità con la sua stessa natura.
Ma allora perché abbiamo adottato, a tutti i costi, questa roba? Contrariamente
a quanti condannano i banchieri e vedano nell’euro un prodotto di un’Europa
“economica”, contrapposta ad una “politica”, Friedman vedeva male l’euro perché
è nato quale prodotto puramente politico. L’introduzione della valuta comune è
frutto di un sogno ideologico: l’idea che, facendo l’euro, si sarebbero fatti
gli europei. Un’utopia che non ha ancora funzionato con i soli italiani
(nonostante l’uso della forza militare impiegata dai Savoia) e che
difficilmente funzionerà per i 17 popoli (senza contare le minoranze)
dell’eurozona.
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