mercoledì 25 luglio 2012

MA INTANTO CHE SI INDAGA SUL TERZO E QUARTO LIVELLO...IL PRIMO, QUELLO DEGLI ASSASSINI DI BORSELLINO, CHE FINE HANNO FATTO ?


Anche Polito si dedica alla notizia del rinvio a giudizio richiesta dalla procura di Palermo, con l'importante distinguo del suo capo, il Dr. Messineo che non si vorrebbe inguagliare troppo ora che al CSM sembrava prepararsi per lui un bell'avanzamento di carriera, nei confronti di uomini ,"servitori" dello Stato, che si sarebbero in qualche modo collusi con la criminalità mafiosa.
Tra le cose che Polito ricorda, opportunamente, è che dopo 20 anni ( VENTI !!!) qui ancora non si sono trovati gli assassini di Borsellino, cioè gli esecutori ! Ingroia a co. giocano coi Lego del terzo e quarto livello, ma si sono scordati il PRIMO.
Oddio qualcosina in questi 20 anni avevano fatto...ed era stato comminato anche qualche ergastolo.
Poi si sono accorti che si erano sbagliati, che il pentito a cui avevano dato retta era l'ennesimo cantastorie, e gli innocenti condannati sono tornati liberi. Ma i colpevoli non li hanno trovati, né li troveranno più, ammesso che li stiano cercando.
Loro giocano con le Lego dei grandi...
Buona Lettura




ANTONIO POLITO: “LA LINEA SOTTILE TRA VERITA’ E TEOREMI”
Se un giudice accoglierà la richiesta della Procura di Palermo, per la prima volta della storia d’Italia avremo un processo in cui sul banco degli imputati siederanno insieme i più grandi boss della mafia, un paio di generali dei carabinieri, un ex ministro degli interni e due senatori. Tutti coinvolti, con un ex ministro della Giustizia, nell'accusa di aver trattato una tregua tra Stato e Cosa nostra una ventina di anni fa. Molti italiani, convinti da tempo che lo Stato è marcio e colluso, si rallegreranno di questo semplice fatto. E in effetti va a onore di un sistema giudiziario in cui l'Accusa è totalmente indipendente, talvolta perfino dal capo della Procura, il fatto che in Italia qualsiasi pm di qualsiasi sede possa indagare chiunque; e anche intercettare — indirettamente, s'intende — il capo dello Stato; e anche motivare pubblicamente l'ispirazione politica della sua azione. Non in tutti i paesi liberi i pm sono così liberi. D'altra parte, però, nella maggioranza degli italiani, cui non sta meno a cuore la verità ma che tengono anche al buon nome del nostro Paese e alla saldezza della sua democrazia, vicende del genere suscitano sentimenti più ambivalenti. Non si sa se sperare che le accuse vengano provate, o che siano dimostrate fasulle. Se fossero vere, avremmo infatti finalmente illuminato un periodo molto oscuro della storia nazionale, segnato dalla doppia strage che costò la vita a due eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma se fossero un teorema che si rivela falso, tireremmo ugualmente un sospiro di sollievo, perché l'idea che le istituzioni democratiche siano scese a patti con gli assassini non riusciamo proprio a mandarla giù, tanto ci sembra incredibile e ripugnante. Il guaio è che difficilmente sapremo la verità. Non dico la Verità con la maiuscola, ma neanche quella giudiziaria. Si tratta di eventi avvenuti — o non avvenuti — venti anni fa. Se si considera che in vent'anni gli inquirenti non sono riusciti nemmeno a individuare gli assassini materiali di Borsellino, e anzi si sono bevuti per anni la versione di un finto pentito mandando ingiustamente numerose persone all'ergastolo, il sospetto che si possa trattare di un altro errore giudiziario è lecito: va bene indagare sul terzo e il quarto livello, ma anche il primo livello ha la sua importanza. In ogni caso dovremo aspettare altri anni prima di una sentenza definitiva. La giustizia italiana ci ha abituato a molte inchieste e poche condanne. E se questa lentezza è un'ingiustizia quando riguarda semplici cittadini, è anche più grave quando un'accusa così infamante colpisce chi ha rivestito cariche istituzionali, perché il discredito si riverbera sulla Repubblica, radicando all'estero il dubbio che il nostro Paese sia afflitto da uno spread di civiltà, e che dunque si meriti quello finanziario. Non potendo dunque ricorrere fiduciosi alla formula di circostanza — aspettiamo che la Giustizia faccia il suo corso — non resta che sbirciare negli aspetti tecnici di questa vicenda processuale. E scoprire per esempio che, con l'eccezione di Mancino accusato di falsa testimonianza, tutti gli altri, boss generali e politici, sono indagati per «attentato contro un Corpo politico», che è reato pesante ma inusitato, nel senso che non se ne ricordano molti altri usi. La concretezza dello scambio, del do ut des, non deve essere tale da consentire fattispecie più dettagliate. Potrebbe essere un modo per uscire comunque da un'indagine molto ambiziosa prima di salpare per altri lidi, oppure potrebbe diventare la chiave del primo processo «politico» alla mafia, che tante speranze ha riacceso nei fautori della teoria del «doppio Stato», dell'esistenza cioè di uno Stato criminale incistato nello Stato legale. C'è chi si interroga, anzi, se non viviamo ancora oggi sotto la cappa di quel patto scellerato, se l'intera storia della Seconda Repubblica, rossi e neri, bianchi e azzurri, non sia altro che una recita avvenuta all'ombra di burattinai occulti. A giudicare dai colpi che la mafia ha preso in questi vent'anni si direbbe di no. Se patto c'è stato, ha portato in galera tutti i principali capi e latitanti di Cosa nostra e, per sfregio finale, con un leghista di Varese al Viminale. Anche questa, nel suo piccolo, è una verità.



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