Nel suo editoriale di oggi, il prof. Angelo PAnebianco sul Corsera affronta questi temi, partendo dalle drammatiche divisioni esistenti nel nostro paese di cui non si può prescindere se si vuole prima capire e poi cercare di risolvere. Divisioni che non sono poi spaccatura in due, che già potrebbe essere un problema meno arduo da risolvere (due fazioni opposte ma al loro interno omogenee...ebbé si vota e la maggioranza governa). No, da noi c'è una pluralità di fazioni radicali, e questo rende ogni cosa più difficile, dove le alleanze si possono anche fare ma CONTRO, MAI PER.
Buona Lettura
UN OBIETTIVO, TROPPE DIVISIONI
Si fa presto a dire
crescita
A causa del fatto
che, per lo più, non si vuole concedere all'avversario una qualche dignità, ma
anche a causa di una diffusa ignoranza della storia patria, il nostro dibattito
pubblico tende quasi sempre a immiserire e a banalizzare ciò che non dovrebbe
esserlo: le nostre divisioni. Esse non sono alimentate, come ci fa comodo
credere, solo da contingenti conflitti di interesse. Riflettono, e riproducono,
contrapposizioni antiche. Le divisioni politiche contingenti occultano
radicate, profonde, e probabilmente incomponibili, divisioni culturali. Siamo
divisi praticamente su tutto e il fatto che il nostro sia ancora uno Stato
unitario, per di più corredato di una (claudicante) democrazia, è una specie di
miracolo. Usiamo le stesse parole ma diamo loro significati antitetici. Se
prescindiamo per un momento dagli interessi in gioco, ad esempio, che altro è
lo scontro sulle intercettazioni (diritto di cronaca contro diritto alla
privacy) se non una divisione che chiama in gioco due idee radicalmente
diverse, e cariche di storia, della libertà?
La stessa cosa
accade con un'altra parola che usiamo tanto, soprattutto da quando l'«oggetto»
a cui si riferisce è sparito nel nulla: la parola in questione è «crescita».
Tre partiti si confrontano e si scontrano sulla crescita. Il primo partito, più
diffuso e ramificato di quanto si voglia credere, è quello dei nemici della
crescita, dei fautori della de-industrializzazione del Paese. Varie pulsioni lo
alimentano: la critica romantica della società industriale, un anticapitalismo
che ha varie ascendenze culturali, utopie bucoliche, la sindrome «non nel mio
giardino», il sogno di una società capace di eliminare il rischio, l'avversione
per un sistema economico-sociale fondato sul continuo cambiamento.
Ma anche i fautori
della crescita sono divisi al loro interno. Qui i contrasti si fanno più
sottili, non sono sempre immediatamente riconoscibili. Lo stesso governo Monti
appare attraversato da questa divisione. E ciò si riflette nei provvedimenti
che esso appronta.
A confrontarsi e a
scontrarsi sono il partito per il quale la crescita deve essere guidata dallo
Stato, che pensa che il governo ne debba essere il deus ex machina , e il
partito che la intende come il virtuoso sottoprodotto della libertà degli
individui. Ne consegue che i due partiti, pur con alcune sovrapposizioni,
attribuiscono compiti diversi al governo. Per il primo partito, il governo deve
direttamente «farsi carico» della crescita. Per il secondo, invece, deve creare
le condizioni perché siano i cittadini, con la loro libera attività, a farsene
carico. Per dire, sia il segretario della Cgil Susanna Camusso nelle sue
dichiarazioni che gli economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nei loro
editoriali sul Corriere auspicano la crescita ma i mezzi a cui pensano per
ottenerla non sono propriamente gli stessi. Alla prima concezione, per esempio,
è associata l'idea di «politica economica» (salvo ricordare che già nella prima
metà dello scorso secolo l'economista Joseph Schumpeter ammoniva che la
politica economica è in realtà «politica e basta») e, in tempi passati, anche
di «programmazione»: il governo, oltre a manovrare la spesa pubblica, deve
marcare stretto, da vicino, gli operatori economici, gli spetta il compito del
direttore d'orchestra.
Per la seconda
concezione, invece, il governo, se vuole davvero la crescita, deve darsi due
compiti essenziali: rendere efficienti (la miglior qualità possibile al costo
più basso possibile) i servizi che gli spettano e mettere la società in
condizioni di respirare, di non essere oppressa da un eccesso di regolamenti e
tasse. Per la seconda concezione, non è compito del governo «promuovere» la
crescita. Il suo compito è togliere gli ostacoli burocratici che impediscono
alla libera attività dei cittadini di promuoverla.
Se fossimo un Paese
meno complicato di come la storia ci ha reso, il confronto politico e,
massimamente, il confronto elettorale, sarebbero chiarificatori: sinistra e
destra si sfiderebbero proponendo ai cittadini due diverse visioni dei mezzi
necessari per rilanciare la crescita economica. Ma siccome siamo complicati, da
noi tutto si confonde: talché, a destra, a sinistra e al centro, troviamo,
mescolati, i fautori di entrambe le concezioni, i rappresentanti di entrambi i
partiti.
Per avere crescita
serve dare impulso a un massiccio programma di opere pubbliche mantenendo la
pressione fiscale al livello a cui è giunta oppure serve, prima di tutto e
soprattutto, abbassare le tasse? La risposta qualifica l'interlocutore come
appartenente all'uno o all'altro dei due partiti.
Forse, inadeguatezza
di molti protagonisti a parte, una delle ragioni per cui l'esperimento di
bipolarismo politico è fallito in questo Paese è che, oberati dalle cattive
abitudini e eredità della Prima Repubblica, non siamo riusciti a farne lo
strumento per incanalare e contrapporre visioni della crescita (e connesse
prassi di governo) chiaramente e inequivocabilmente alternative.
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