mercoledì 29 agosto 2012

UN PAESE TROPPO DIVISO, DOVE LE ALLEANZE SONO SOLO "CONTRO", MAI "PER"

Sono in molti a sostenere che DESTRA e SINISTRA, Liberalismo e socialismo,  siano concetti che non esistono più, retaggi ottocenteschi che hanno avuto la loro affermazione completa nel secolo scorso ma che ormai non hanno più ragione d'essere. Non sono d'accordo. La distinzione c'è, e ovviamente non riguarda banalità da solleone per cui il reggicalze è di destra e il collant è di sinistra! Riguarda l'idea di Società che si vorrebbe vedere attuata. Le cd. "grandi coalizioni", in cui formazioni politiche opposte si uniscono di fronte ad uno stato d'emergenza, hanno ragione di essere nella misura in cui riescono ad individuare degli interventi utili a salvare la nave condivisi. Poi, passata la tempesta, si torna a contrapporsi.. Da noi la strana maggioranza ha funzionato in maniera accettabile solo il primo mese, forse due, con l'accelerazione sulla riforma previdenziale. Poi, è stato un continuo mercanteggiamento al ribasso che ha avuto il suo apice con la riforma sul lavoro, dove a forza di colpi al cerchio e alla botte, è stato partorito un aborto, come si vede dall'occupazione fermissima e anzi in regresso. Questo accade perché da noi i compromessi sono sempre al RIBASSO, avendo i nostri politici solo riguardo al consenso del proprio elettorato. Schroeder, ultimo cancelliere socialdemocratico tedesco, quando si convinse che il welfare fosse divenuto insostenibile e anche in materia di lavoro si dovesse riformare in senso meno generoso, non ha esitato ad allearsi con gli avversari della CDU della Mekel, che la pensavano come lui piuttosto che (non) governare con la sinistra più radicale che certe riforme non le avrebbe mai consentite. Altri politici. Da noi non ce n'è traccia.
Nel suo editoriale di oggi, il prof. Angelo PAnebianco sul Corsera affronta questi temi, partendo dalle drammatiche divisioni esistenti nel nostro paese di cui non si può prescindere se si vuole prima capire e poi cercare di risolvere. Divisioni che non sono poi spaccatura in due, che già potrebbe essere un problema meno arduo da risolvere (due fazioni opposte ma al loro interno omogenee...ebbé si vota e la maggioranza governa). No, da noi c'è una pluralità di fazioni radicali, e questo rende ogni cosa più difficile, dove le alleanze si possono anche fare ma CONTRO, MAI PER.
Buona Lettura

UN OBIETTIVO, TROPPE DIVISIONI
Si fa presto a dire crescita
A causa del fatto che, per lo più, non si vuole concedere all'avversario una qualche dignità, ma anche a causa di una diffusa ignoranza della storia patria, il nostro dibattito pubblico tende quasi sempre a immiserire e a banalizzare ciò che non dovrebbe esserlo: le nostre divisioni. Esse non sono alimentate, come ci fa comodo credere, solo da contingenti conflitti di interesse. Riflettono, e riproducono, contrapposizioni antiche. Le divisioni politiche contingenti occultano radicate, profonde, e probabilmente incomponibili, divisioni culturali. Siamo divisi praticamente su tutto e il fatto che il nostro sia ancora uno Stato unitario, per di più corredato di una (claudicante) democrazia, è una specie di miracolo. Usiamo le stesse parole ma diamo loro significati antitetici. Se prescindiamo per un momento dagli interessi in gioco, ad esempio, che altro è lo scontro sulle intercettazioni (diritto di cronaca contro diritto alla privacy) se non una divisione che chiama in gioco due idee radicalmente diverse, e cariche di storia, della libertà? 
La stessa cosa accade con un'altra parola che usiamo tanto, soprattutto da quando l'«oggetto» a cui si riferisce è sparito nel nulla: la parola in questione è «crescita». Tre partiti si confrontano e si scontrano sulla crescita. Il primo partito, più diffuso e ramificato di quanto si voglia credere, è quello dei nemici della crescita, dei fautori della de-industrializzazione del Paese. Varie pulsioni lo alimentano: la critica romantica della società industriale, un anticapitalismo che ha varie ascendenze culturali, utopie bucoliche, la sindrome «non nel mio giardino», il sogno di una società capace di eliminare il rischio, l'avversione per un sistema economico-sociale fondato sul continuo cambiamento. 
Ma anche i fautori della crescita sono divisi al loro interno. Qui i contrasti si fanno più sottili, non sono sempre immediatamente riconoscibili. Lo stesso governo Monti appare attraversato da questa divisione. E ciò si riflette nei provvedimenti che esso appronta. 
A confrontarsi e a scontrarsi sono il partito per il quale la crescita deve essere guidata dallo Stato, che pensa che il governo ne debba essere il deus ex machina , e il partito che la intende come il virtuoso sottoprodotto della libertà degli individui. Ne consegue che i due partiti, pur con alcune sovrapposizioni, attribuiscono compiti diversi al governo. Per il primo partito, il governo deve direttamente «farsi carico» della crescita. Per il secondo, invece, deve creare le condizioni perché siano i cittadini, con la loro libera attività, a farsene carico. Per dire, sia il segretario della Cgil Susanna Camusso nelle sue dichiarazioni che gli economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nei loro editoriali sul Corriere auspicano la crescita ma i mezzi a cui pensano per ottenerla non sono propriamente gli stessi. Alla prima concezione, per esempio, è associata l'idea di «politica economica» (salvo ricordare che già nella prima metà dello scorso secolo l'economista Joseph Schumpeter ammoniva che la politica economica è in realtà «politica e basta») e, in tempi passati, anche di «programmazione»: il governo, oltre a manovrare la spesa pubblica, deve marcare stretto, da vicino, gli operatori economici, gli spetta il compito del direttore d'orchestra. 
Per la seconda concezione, invece, il governo, se vuole davvero la crescita, deve darsi due compiti essenziali: rendere efficienti (la miglior qualità possibile al costo più basso possibile) i servizi che gli spettano e mettere la società in condizioni di respirare, di non essere oppressa da un eccesso di regolamenti e tasse. Per la seconda concezione, non è compito del governo «promuovere» la crescita. Il suo compito è togliere gli ostacoli burocratici che impediscono alla libera attività dei cittadini di promuoverla. 
Se fossimo un Paese meno complicato di come la storia ci ha reso, il confronto politico e, massimamente, il confronto elettorale, sarebbero chiarificatori: sinistra e destra si sfiderebbero proponendo ai cittadini due diverse visioni dei mezzi necessari per rilanciare la crescita economica. Ma siccome siamo complicati, da noi tutto si confonde: talché, a destra, a sinistra e al centro, troviamo, mescolati, i fautori di entrambe le concezioni, i rappresentanti di entrambi i partiti. 
Per avere crescita serve dare impulso a un massiccio programma di opere pubbliche mantenendo la pressione fiscale al livello a cui è giunta oppure serve, prima di tutto e soprattutto, abbassare le tasse? La risposta qualifica l'interlocutore come appartenente all'uno o all'altro dei due partiti. 
Forse, inadeguatezza di molti protagonisti a parte, una delle ragioni per cui l'esperimento di bipolarismo politico è fallito in questo Paese è che, oberati dalle cattive abitudini e eredità della Prima Repubblica, non siamo riusciti a farne lo strumento per incanalare e contrapporre visioni della crescita (e connesse prassi di governo) chiaramente e inequivocabilmente alternative.

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