Sono molto turbato dalla sentenza della Cassazione che riporto e chiedo veramente l'ausilio dei miei amici Penalisti per cercare di farmi chiarezza.
La storia sostanzialmente è questa : due coniugi fanno sesso in modo decisamente trasgressivo. Più precisamente, pratiche sado maso, dove il sadico è rigorosamente lui e quella che subisce lei. Questa modalità ricorre nel menage coniugale fino a quando lei deve essersi - FINALMENTE - stufata e si è opposta. La cosa finisce in Tribunale. La denuncia della moglie è che lui ha usato modalità violente, anche quando lei esplicitamente aveva opposto un rifiuto. Il che può benissimo essere. Ma come si prova ? Perché qui è pacifico che questi modi violenti facessero parte dell'intimità della coppia. Certo, NO vuol dire NO, sempre, lo abbiamo scritto. La donna è sempre libera di ritirare il proprio consenso. Ma un conto è un rapporto tradizionale, dove se poi l'uomo ricorre alla violenza, lascia tracce ben individuabili ad un bravo ginecologo (figuriamoci se ricorre a schiaffi e pugni !). Un conto è un rapporto dove la violenza è CONTEMPLATA. A quel punto abbiamo SOLO la parola di lei, senza nessun elemento oggettivo riscontrabile. So bene che nel campo della violenza sessuale ci si muove su un terreno minato, però sappiamo anche che le menzogne sono TANTE e per svariati motivi. Tra questi, far pagare all'altro la crisi del rapporto, per qualsiasi motivo avvenuta. Nella sentenza della Cassazione non si comprendono, perché non vengono richiamate, le ragioni delle condanne di primo e secondo grado, e quindi gli elementi in base ai quali la denunciante è stata ritenuta assolutamente attendibile e la sua testimonianza viene considerata sufficiente per la condanna. Il principio di diritto enunciato è il seguente :
"...per quanto attiene agli atti sessuali, tale consenso deve permanere durante lo svolgimento dell’attività sessuale, la quale si caratterizza nella sua liceità proprio per la presenza costante del consenso, espresso e/o presunto tra le parti, o comunque per la non manifestazione del dissenso agli specifici atti posti in essere da uno dei due partner. In particolare, è stato affermato che in relazione a certe pratiche estreme, per escludere l’antigiuridicità della condotta lesiva, non basta il consenso del partner espresso nel momento iniziale della condotta, per cui la scriminante non può essere invocata se l’avente diritto manifesta, esplicitamente o mediante comportamenti univoci, di non essere più consenziente al protrarsi dell’azione alla quale aveva inizialmente aderito, per un ripensamento od una non condivisione sulle modalità di consumazione dell’amplesso".
La riproposizione, fino all'estremo, del principio sopra citato e condiviso : NO, vuol dire NO. Non interpretabile.
A me sta bene, a patto che ci sia al contempo una rivoluzione culturale, per cui tanti giochetti verbali e non, del cacciatore e la preda, del fuggire per essere raggiunti, della reticenza per saggiare l'effettiva insistenza, ste cosette qui che fanno parte del gioco erotico le eliminiamo TUTTE. Mi ricordo il commento di un mio carissimo e purtroppo scomparso amico (uno che aveva un certo successo con le donne : al suo precocissimo funerale, aveva solo 28 anni, c'erano non so se 4-5 fidanzate inconsolabili . E NON Scherzo) che a questa cosa del NO non interpretabile , disse : "vabbé allora tanto vale che ce facciamo un nodo".
IO stesso, tra i ricordi più buffi che ho, quello di una bellissima ragazza che mentre la spogliavo, mi aiutava, sbottonandosi a sua volta la camicetta , aiutandomi con la cinta dei jeans e al contempo mi diceva "ma no, che fai, dai che non voglio" GIURO !!!!
Sono giochi che in tanti conosciamo. Mi direte che in quei casi è evidente il consenso, e avete ragione. MA IL PRINCIPIO della severa Cassazione è che non sia consentito valutarlo. Ricordate ? NO vuol dire NO.
Il timore mio è piuttosto un altro : la complessità, conflittualità direi proprio nevroticità crescente dei rapporti tra uomini e donne e la possibile strumentalizzazione di un eccesso di credito. La violenza sulle donne è una tristissima realtà, come attestano numeri di una donna uccisa ogni tre giorni, le violenze (e molestie ) sessuali che riguardano oltre 7 milioni di donne che almeno una volta, nell'arco della vita, le hanno subite. Le denunce sono meno del 10%. Il problema quindi c'è assolutamente. Resta da capire perché i Giudici, nel caso di specie, abbiano ritenuto credibile e attendibile la testimonianza della donna, stante anche come detto l'assoluta peculiarità della vicenda. Attenzione, non è una domanda scettica, è PROPRIO una domanda.
Perché , ne sono convinto, un male, per quanto grande, non può essere combattuto con un altro male.
Ecco comunque la sentenza de quo, spero che i miei colleghi la leggano e lascino qualche commento illuminante
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 1° ottobre 2012, n. 37916
...omissis...
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza emessa il 20
settembre 2011, in
parziale riforma della sentenza del 17 novembre 2011 emessa dal Tribunale di
Ancona, ha ridotto la pena ad anni tre e mesi sei di reclusione inflitta a
B.F., condannato per i reati di cui agli artt. 81 cpv, 609 bis e 61, n. 5 c.p.,
violenza sessuale continuata, consistita in penetrazioni vaginali ed anali,
commessa con violenze fisiche (pugni, schiaffi, strette al collo ed ai
capezzoli) e minacce (consistite nel prospettarle l’eventualità di divulgare
filmati che la ritraevano in atteggiamenti sessuali) in danno di R.A., violenza
compiuta in un’occasione anche profittando di circostanze di tempo e di luogo
tali da ostacolare la pubblica e privata difesa (in Sirolo, alla metà di maggio
2009 (capo a) ed in altri luoghi imprecisati dalla metà di maggio 2009 al 14
luglio 2009 (capo b) ed dall’agosto 2008 al 14 luglio (in Porto Sant’Elpidio) e
24 luglio 2009 (capo c) ed e) come derubricato in art. 581 c.p. e dichiarato
assorbito).
2. L’imputato, tramite il proprio difensore, ha proposto
ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza per il seguente
motivo: Contraddizione e manifesta illogicità della motivazione in relazione al
riconoscimento di responsabilità per il reato di cui al capo b), in quanto i
giudici di appello, che pure hanno accolto alcuni punti oggetto delle doglianze
proposte, hanno ritenuto inequivocabili le risultanze processuali nonostante
abbiano nel contempo dato atto che la vittima non riusciva con certezza a
rievocare i singoli episodi di violenza subiti nell’intervallo di tempo dalla
metà del maggio 2009 al 14 luglio 2009. Invero la persona offesa ha potuto
descrivere nei particolari di tempo, di luogo e di modalità solo due episodi
(capo a) e c), senza invece riuscire a determinare gli altri che si erano
interposti a rapporti sessuali consenzienti (come provati dal filmato ripreso
in data 19 giugno 2009), avendo la stessa dichiarato di non essere in grado di
ricordare nulla distintamente, ma individuando una decina di episodi da metà
maggio fino al 22 giugno, data nella quale la stessa era ritornata a Civitanova
Marche. I giudici di appello avrebbero, quindi, ritenuto responsabile il
ricorrente sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa senza alcun
vaglio di attendibilità, anche nell’ottica delle dichiarazioni rese
dall’imputato, il quale aveva riferito della relazione intercorsa con la
persona offesa, caratterizzata da “pratiche erotiche particolari”, alle quali
la donna si era sottoposta volontariamente; pertanto le pratiche, di per sé
violente, erano state praticate con il consenso dell’avente diritto. La
motivazione della sentenza impugnata sarebbe dunque lacunosa e non terrebbe conto
della mancanza di fatti delineati in maniera specifica, che sono stati ritenuti
provati solo sulla scorta di un’estensione analogica del giudizio di
responsabilità relativo agli altri due specifici episodi di violenza.
Considerato in diritto
1. Occorre premettere che la Corte di Cassazione ha
affermato il principio di diritto in base al quale, quando le sentenze di primo
e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di
prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale
della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico
complessivo corpo argomentativo (così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606
dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000,
Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145).
Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di
secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri
omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle
determinazioni ivi prese ed ai passaggi logicogiuridici della decisione e, a
maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi
nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed
ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della
sentenza Sez.. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv, 221116).
2. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado, che pure
hanno fatto riferimento alle esaustive argomentazioni sviluppate nel dettaglio
nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione specifica delle
censure di appello, limitate alla quantificazione della pena) ed accolte nella
sostanza, vista anche la conseguente diminuzione della sanzione inflitta -
verificando implicitamente le ragioni dell’attendibilità della persona offesa e
gli elementi probatori di riscontro dei fatti, costituiti da tutti gli atti
delle indagini preliminari, acquisiti su accorda delle parti ex art. 493 c.p.p.,
sin dal giudizio di primo grado, ivi comprese l’ammissione degli addebiti da
parte dell’imputato.
3. L’unica censura proposta, attinente alla
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, collegata alla
valutazione di piena attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, in
riferimento a quegli episodi (capo b) che la stessa non ha saputo (ovvero
potuto) ricordare nei dettagli specifici risulta infondata, ed ai limiti
dell’ammissibilità. Il motivo di censura ha tratto le mosse da un passaggio
motivazionale della Corte anconetana, la quale, nel dare atto che le violenze
sessuali furono alternate a rapporti volontari durante lo svolgimento della
relazione tra imputato e persona offesa, ha ritenuto tale alternanza quale
elemento idoneo a rendere più difficile alla vittima la rievocazione dei
singoli e specifici episodi, ritenendo nel contempo che fossero inequivocabili
le risultanze processuali circa la responsabilità del B. anche per tali fatti.
Orbene tale motivazione non risulta affatto contraddittoria
ed illogica. Le sentenze di merito hanno ben motivato circa le ragioni per le
quali le dichiarazioni della persona offesa dovessero ritenersi attendibili,
sia in generale, in virtù anche dei riscontri esterni oggettivi, sia in
relazione agli episodi che la R. non è riuscita a meglio individuare, accaduti
durante la relazione sentimentale con l’imputato. I giudici di merito hanno
tenuto conto della c.d. dimensione relazionale (meglio descritta nella sentenza
di primo grado) tra la persona offesa e l’imputato, i quali furono inizialmente
legati da un rapporto erotico-sentimentale caratterizzato dalla relazione
incube-succube, poi diventata relazione vittima-carnefice, per cui, sviluppando
quanto già affermato in giurisprudenza circa i rapporti di coppia di tipo
coniugale, i giudici hanno ritenuto che ben potessero coesistere, in una
relazione di tal fatta, incontri sessuali consensuali, con altri nei quali,
proprio per la mancanza di consenso della donna, intervenissero comportamenti
violenti e minacce da parte del B. Risulta in tale contesto coerente l’aver
ritenuto che nell’ambito di tale complessa relazione interpersonale, di durata
non trascurabile, la memoria della persona offesa potesse fissare, nei
dettagli, solo alcuni degli episodi violenti ed invece rievocarne altri nei
loro profili generali di violenza subita, senza la possibilità di indicare le
diverse modalità degli atti sessuali e la data ed il luogo ove gli stessi
ebbero a verificarsi. La motivazione circa la piena attendibilità delle
dichiarazioni rese dalla persona offesa anche in relazione agli episodi di cui
al capo b) risulta quindi priva di smagliature logiche e perfettamente coerente
con la ricostruzione della vicenda complessiva che i giudici dei due gradi di
merito hanno operato.
4. Quanto alla critica al giudizio di “in equivocità” delle
risultanze processuali, la stessa è del pari infondata e del resto tale profilo
non era stato affrontato nelle censure di appello, limitate, come si è detto,
alla dosimetria sanzionatoria.
Comunque, per consolidato orientamento della giurisprudenza
di legittimità, il giudice di merito può trarre il proprio convincimento circa
la responsabilità dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla
persona offesa, sempre che la stessa sia stata sottoposta a vaglio positivo
circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole
probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza
di riscontri esterni (cfr., per tutte, Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini,
Rv. 248016) e le motivazioni delle decisioni di condanna risultano motivate in
maniera ineccepibile quanto a tale profilo.
5. Per quanto attiene poi all’adombrata tematica del
consenso dell’avente diritto quale causa esimente delle condotte ascritte sub
b), il motivo è infondato. Purtroppo è ben possibile che, nello svolgimento
della patologia delle relazioni sentimentali tra uomo e donna, si verifichi la
sussistenza di rapporti sessuali consensuali alternati a rapporti sessuali
imposti e non può certo presumersi il consenso anche in riferimento ai rapporti
sessuali imposti con la violenza e minaccia, come nel caso di specie.
Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che
il consenso dell’avente diritto per avere effetto scriminante deve essere in
correlazione cronologica con il compimento del fatto tipizzato come illecito,
per cui per quanto attiene agli atti sessuali, tale consenso deve permanere
durante lo svolgimento dell’attività sessuale, la quale si caratterizza nella
sua liceità proprio per la presenza costante del consenso, espresso e/o
presunto tra le parti, o comunque per la non manifestazione del dissenso agli
specifici atti posti in essere da uno dei due partner. In particolare, è stato
affermato che in relazione a certe pratiche estreme, per escludere
l’antigiuridicità della condotta lesiva, non basta il consenso del partner
espresso nel momento iniziale della condotta, per cui la scriminante non può
essere invocata se l’avente diritto manifesta, esplicitamente o mediante comportamenti
univoci, di non essere più consenziente al protrarsi dell’azione alla quale
aveva inizialmente aderito, per un ripensamento od una non condivisione sulle
modalità di consumazione dell’amplesso (Sez. 3, n. 25727 del 24/2/2004, dep.
9/6/2004, Guzzardi, Rv. 228687; Sez. 3, n. 4532 del 11/12/2007, dep. 29/1/2008,
Bonavita, Rv. 238987).
Pertanto il ricorso deve essere rigettato con conseguente
condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del
procedimento.
ANTONIO DE SIMONE
RispondiEliminaOddio, anche durante? Mamma mia stiamo messi male immagine la "ritrattazione" nel momento clou....un dramma nooo io mi faccio arrestare....
ANTONIO GAGLIONE
RispondiElimina.ma almeno un minimo di termine dilatorio, rispetto alla revoca del consenso, verrà concesso?
CINICI !!!! SIETE TUTTI CINICI !!!!
RispondiEliminaRISATA
MARIAPIA MAIER
RispondiEliminafinirà che qualcuno chiederà al partner autorizz a riprese filmate...