Uscite le motivazioni della Consulta in ordine al conflitto di poteri instauratosi tra la Procura di Palermo e la Presidenza della Repubblica. Il dispositivo, sintetico, era stato più chiaro : le conversazioni del Capo dello Stato non possono essere intercettate mai, e se per sbaglio avviene, perché si sta intercettando qualcun altro (come nel caso di specie ), l'intercettazione deve immediatamente cessare (cosa non avvenuta ) e quanto indebitamente ascoltato deve essere immediatamente distrutto ( idem come sopra ).
Nelle motivazioni però la Corte risponde al quesito evidentemente posto dalla difesa della Procura. Cosa accade se dall'involontaria intercettazione emergono elementi che possono gettare luce su reati gravi e addirittura impedire il compimento di altri ? In questo caso, risponde la Corte, è diverso, perché il principio costituzionale della tutela della riservatezza del Presidente cede di fronte a quella di diritti parimenti costituzionali e di valore superiore (quale quello della vita umana ).
Se questa lettura è corretta, siamo nell'ambito della discrezionalità, e quindi cadrebbe il primo corollario della intercettazione che deve cessare non appena riconosciuta la voce del Presidente..
Questioni complesse, di cui francamente non ho competenza sufficiente.
Ho letto stamane due commenti al riguardo. Il primo è Michele Ainis, costituzionalista che scrive sul Corriere della Sera che ha sempre difeso la linea del Colle e quindi ha salutato con grande favore la decisione della Consulta. Oggi che è chiamato a commentarne le motivazioni...a me sembra di avvertire una certa difficoltà. Sarà una mia impressione, ma alla fine della lettura non ero convinto.
Poi ho letto l'opinione sullo stesso argomento di Davide Giacalone. Sarà che non è un tecnico della materia, e quindi per questo più chiaro, però i suoi dubbi e quindi le sue conclusioni a me persuadono di più.
Però sapete che facciamo ?
Io li riporto entrambi e poi magari se ne riparla.
Buona Lettura
MICHELE AINIS “La Sentenza è
un Lascito al Presidente che verrà”
Il sale è nella coda. Più
precisamente, nell'ultimo capoverso d'una sentenza che s'allunga per 49 pagine,
e che d'ora in avanti verrà citata in ogni manuale di diritto. Ne conoscevamo
già il dispositivo: Giorgio Napolitano ha ragione, la procura di Palermo ha
torto. Dunque le quattro intercettazioni che hanno coinvolto il presidente
vanno distrutte subito, senza aspettare le formalità dell'udienza stralcio.
Altrimenti la privacy del capo dello Stato si convertirebbe nel suo opposto,
nell'esposizione al pubblico ludibrio. Domanda: e se putacaso la conversazione
telefonica offrisse la prova che un innocente sta in galera, che un bombarolo è
pronto ad accendere la miccia, che un generale si prepara al golpe? Allora no,
ha dichiarato la Consulta. Giacché in tali ipotesi vengono in gioco beni
costituzionali indisponibili, più importanti della riservatezza che spetta al
presidente. Detta così, parrebbe una vittoria postuma di Ingroia, proprio lui
che aveva bollato come «sentenza politica» questa decisione, senza nemmeno
attenderne le motivazioni. Errore: in ogni sentenza, e specialmente in quelle
che emana la Consulta, la parte motiva conta più del dispositivo. Perché
quest'ultimo si riferisce a un caso specifico, mentre la prima viaggia sui principi.
E perché i principi, quando li hai fissati sulla carta, valgono per sempre, per
tutti gli accidenti che ti riserverà il futuro. Errore doppio: tale decisione
segna difatti la sconfitta non tanto di una tesi, quanto di una linea culturale
sostenuta dalla procura di Palermo. Quella che interpreta l'ordinamento
giuridico italiano come se la Costituzione non ci fosse, come se abitasse in
una stanza separata. Facciamo un passo indietro. Siccome nessuna norma regola
le intercettazioni fortuite del capo dello Stato, i magistrati siciliani
intendevano applicare le regole comuni, quelle che valgono per ogni cittadino.
Il presupposto, dunque, è che qui s'apra una lacuna, un vuoto normativo. Ma è
legittima tale conclusione? I lettori mi perdoneranno un'autocitazione: «nel
diritto non esistono lacune, quando s'immerga lo sguardo dentro la forza
pervasiva dei principi costituzionali» (Corriere della sera, 6 dicembre 2012).
Qualche giorno dopo (dalle colonne del Fatto quotidiano) Antonio Ingroia
risponde un po' piccato: «il diritto è geometria, non poesia». Ma adesso mette
punto e a capo la Consulta, estendendo al presidente l'art. 271 del codice di
rito, che alla lettera vale per l'avvocato, per il medico, per il sacerdote.
Osservando che l'interpretazione meramente letterale descrive un metodo
«primitivo». Infine concludendo che «occorre interpretare le leggi ordinarie
alla luce della Costituzione, e non viceversa». In questi passaggi c'è una
lezione che vale per noi tutti, ben più che per i diretti interessati. Perché
abbiamo finito per relegare in un soppalco la nostra vecchia Carta. Perché non
siamo più capaci di prenderla sul serio. E perché nel frattempo l'etica
pubblica vola rasoterra, le istituzioni sembrano impegnate in una partita a
rubamazzo, ai cittadini è venuta in odio la politica. Viceversa nella sentenza
depositata ieri la Costituzione opera magis ut valeat, al meglio della sua
capacità espansiva, come diceva Vezio Crisafulli. Però funziona a mo' di
fisarmonica, perché ciascun principio va bilanciato con tutti gli altri
principi, e infine rapportato alle mutevoli circostanze della vita: in un caso
avanza, nell'altro retrocede. Da qui le eccezioni alla garanzia della
riservatezza che protegge il presidente. D'altronde la fisarmonica è lo
strumento che lui stesso suona. Dal 1956, da quando esordì nel nostro
ordinamento, per la prima volta la Consulta disegna un affresco complessivo del
ruolo che la Costituzione assegna al Quirinale. Ne viene fuori un potere senza
poteri, giacché il suo compito è semmai d'innescare i poteri altrui, di farli
funzionare. Quindi un «pouvoir neutre et modérateur», per usare le parole di Constant. È la santificazione della moral suasion, di cui
Napolitano ha fatto una divisa. Ma è anche un lascito per i suoi successori: se
vorranno esercitare un peso analogo, dovranno anzitutto possederne l'autorità
morale.
DAVIDE GIACALONE Imbarazzo costituzionale
Le sentenze della Corte
costituzionale dovrebbero risolvere questioni di diritto, usando il parametro
della coerenza con la Costituzione. E’ naturale che da una questione di diritto
discenda la soluzione di una concreta vicenda giudiziaria. Nel caso delle intercettazioni
telefoniche, che la procura di Palermo aveva raccolto coinvolgendo il
presidente della Repubblica, però, sembra che il caso concreto abbia prevalso
sull’indicazione generale. O, comunque, le 49 pagine di motivazioni, con cui la
Corte spiega perché quelle intercettazioni vanno subito distrutte, lasciano non
pochi problemi aperti.
Il numero della sentenza è
casuale, ma indicativo: 1/2013. La prima dell’anno appena iniziato. Si legge:
“il presidente della Repubblica deve contare sulla riservatezza assoluta delle
proprie comunicazioni”. Giusto. Ma: la riservatezza delle comunicazioni è un
diritto costituzionalmente riconosciuto a tutti i cittadini, derogabile solo
ove la legge lo consenta. Nel caso delle intercettazioni, la deroga è data dal
giudice delle indagini preliminari. Alcune funzioni sono maggiormente tutelate,
talché, ad esempio, i parlamentari non possono essere intercettati se non con
l’autorizzazione della Camera d’appartenenza. Ebbene: dove si fonda la speciale
tutela del presidente? Da nessuna parte, credo. E’ vero che egli è
costituzionalmente irresponsabile, ma solo per l’esercizio delle funzioni
elencate in Costituzione. Parlare con un signore che si lamenta di talune
indagini non rientra fra quelle. Cosa significa “assoluta”? Alla Consulta sanno
bene che il concetto è fumoso, nonché esistente la procedura che fa venir meno
le guarentigie del Colle.
Capita, inoltre, che
parlamentari e governanti vengano intercettati senza alcuna autorizzazione
specifica, ma in base al fatto che si stava intercettando chi parla con loro.
Dice ora la Corte: “se vi è divieto assoluto d’intercettazione ‘diretta’ (…)
sarebbe ‘naturale’ che sussista un divieto (…)” anche per quella indiretta.
Strano uso dei verbi e del concetto “naturale”. E’ vietato o no? Sì, dice la
Corte. Ma se è vietato per il presidente dovrebbe essere vietato anche per gli
altri, visto che non vi è alcuna legge che distingua, né base costituzionale
per distinguere (fuori dall’esercizio delle funzioni presidenziali).
L’impressione, insomma, è che queste intercettazioni vanno alla distruzione, ma
il problema no.
Nelle motivazioni, assai più
che nel dispositivo (già conosciuto e commentato), si coglie l’imbarazzo in cui
s’è trovata la Corte, dato che a fronte di un comportamento certamente illegittimo
della procura palermitana hanno dovuto esaminare un ricorso relativo non al
principio, quindi destinato a fissare paletti ineludibili, ma a distruggere
specifiche conversazioni, inserite in uno specifico procedimento penale. Non
una bella pagina, per nessuno. La procura, con il candidato Antonino Ingroia in
testa, è bocciata in diritto e pesantemente ammonita circa l’uso del potere
d’indagine (che è poi il potere delle toghe all’assalto della politica). Il
Quirinale ne emerge come un garante che s’è ribellato quando toccato
direttamente, ma che non seppe cogliere il vulnus costituzionale allorquando
altri poteri sono stati intercettati e massacrati. La Corte ne emerge come un
arbitro in affanno, tenuta a una sentenza il cui opposto sarebbe stato non solo
inimmaginabile, ma micidialmente destabilizzante. E quando l’arbitro deve avere
di simili preoccupazioni è segno che la partita, da tempo, è degenerata.
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