mercoledì 16 gennaio 2013

LA CONSULTA COL FIATO CORTO : IL PRESIDENTE HA RAGIONE MA....



Uscite le motivazioni della Consulta in ordine al conflitto di poteri instauratosi tra la Procura di Palermo e la Presidenza della Repubblica. Il dispositivo, sintetico, era stato più chiaro : le conversazioni del Capo dello Stato non possono essere intercettate mai, e se per sbaglio avviene, perché si sta intercettando qualcun altro (come nel caso di specie ), l'intercettazione deve immediatamente cessare (cosa non avvenuta ) e quanto indebitamente ascoltato deve essere immediatamente distrutto ( idem come sopra ).
Nelle motivazioni però la Corte risponde al quesito evidentemente posto dalla difesa della Procura. Cosa accade se dall'involontaria intercettazione emergono elementi che possono gettare luce su reati gravi e addirittura impedire il compimento di altri ? In questo caso, risponde la Corte, è diverso, perché il principio costituzionale della tutela della riservatezza del Presidente cede di fronte a quella di diritti parimenti costituzionali e di valore superiore (quale quello della vita umana ).
Se questa lettura è corretta, siamo nell'ambito della discrezionalità, e quindi cadrebbe il primo corollario della intercettazione che deve cessare non appena riconosciuta la voce del Presidente..
Questioni complesse, di cui francamente non ho competenza sufficiente.
Ho letto stamane due commenti al riguardo. Il primo è Michele Ainis, costituzionalista che scrive sul Corriere della Sera che ha sempre difeso la linea del Colle e quindi ha salutato con grande favore la decisione della Consulta. Oggi che è chiamato a commentarne le motivazioni...a me sembra di avvertire una certa difficoltà. Sarà una mia impressione, ma alla fine della lettura non ero convinto.
Poi ho letto l'opinione sullo stesso argomento di Davide Giacalone. Sarà che non è un tecnico della materia, e quindi per questo più chiaro, però i suoi dubbi e quindi le sue conclusioni a me persuadono di più.
Però sapete che facciamo ?
Io li riporto entrambi e poi magari se ne riparla.
Buona Lettura


MICHELE AINIS “La Sentenza è un Lascito al Presidente che verrà”


Il sale è nella coda. Più precisamente, nell'ultimo capoverso d'una sentenza che s'allunga per 49 pagine, e che d'ora in avanti verrà citata in ogni manuale di diritto. Ne conoscevamo già il dispositivo: Giorgio Napolitano ha ragione, la procura di Palermo ha torto. Dunque le quattro intercettazioni che hanno coinvolto il presidente vanno distrutte subito, senza aspettare le formalità dell'udienza stralcio. Altrimenti la privacy del capo dello Stato si convertirebbe nel suo opposto, nell'esposizione al pubblico ludibrio. Domanda: e se putacaso la conversazione telefonica offrisse la prova che un innocente sta in galera, che un bombarolo è pronto ad accendere la miccia, che un generale si prepara al golpe? Allora no, ha dichiarato la Consulta. Giacché in tali ipotesi vengono in gioco beni costituzionali indisponibili, più importanti della riservatezza che spetta al presidente. Detta così, parrebbe una vittoria postuma di Ingroia, proprio lui che aveva bollato come «sentenza politica» questa decisione, senza nemmeno attenderne le motivazioni. Errore: in ogni sentenza, e specialmente in quelle che emana la Consulta, la parte motiva conta più del dispositivo. Perché quest'ultimo si riferisce a un caso specifico, mentre la prima viaggia sui principi. E perché i principi, quando li hai fissati sulla carta, valgono per sempre, per tutti gli accidenti che ti riserverà il futuro. Errore doppio: tale decisione segna difatti la sconfitta non tanto di una tesi, quanto di una linea culturale sostenuta dalla procura di Palermo. Quella che interpreta l'ordinamento giuridico italiano come se la Costituzione non ci fosse, come se abitasse in una stanza separata. Facciamo un passo indietro. Siccome nessuna norma regola le intercettazioni fortuite del capo dello Stato, i magistrati siciliani intendevano applicare le regole comuni, quelle che valgono per ogni cittadino. Il presupposto, dunque, è che qui s'apra una lacuna, un vuoto normativo. Ma è legittima tale conclusione? I lettori mi perdoneranno un'autocitazione: «nel diritto non esistono lacune, quando s'immerga lo sguardo dentro la forza pervasiva dei principi costituzionali» (Corriere della sera, 6 dicembre 2012). Qualche giorno dopo (dalle colonne del Fatto quotidiano) Antonio Ingroia risponde un po' piccato: «il diritto è geometria, non poesia». Ma adesso mette punto e a capo la Consulta, estendendo al presidente l'art. 271 del codice di rito, che alla lettera vale per l'avvocato, per il medico, per il sacerdote. Osservando che l'interpretazione meramente letterale descrive un metodo «primitivo». Infine concludendo che «occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa». In questi passaggi c'è una lezione che vale per noi tutti, ben più che per i diretti interessati. Perché abbiamo finito per relegare in un soppalco la nostra vecchia Carta. Perché non siamo più capaci di prenderla sul serio. E perché nel frattempo l'etica pubblica vola rasoterra, le istituzioni sembrano impegnate in una partita a rubamazzo, ai cittadini è venuta in odio la politica. Viceversa nella sentenza depositata ieri la Costituzione opera magis ut valeat, al meglio della sua capacità espansiva, come diceva Vezio Crisafulli. Però funziona a mo' di fisarmonica, perché ciascun principio va bilanciato con tutti gli altri principi, e infine rapportato alle mutevoli circostanze della vita: in un caso avanza, nell'altro retrocede. Da qui le eccezioni alla garanzia della riservatezza che protegge il presidente. D'altronde la fisarmonica è lo strumento che lui stesso suona. Dal 1956, da quando esordì nel nostro ordinamento, per la prima volta la Consulta disegna un affresco complessivo del ruolo che la Costituzione assegna al Quirinale. Ne viene fuori un potere senza poteri, giacché il suo compito è semmai d'innescare i poteri altrui, di farli funzionare. Quindi un «pouvoir neutre et modérateur», per usare le parole di Constant. È la santificazione della moral suasion, di cui Napolitano ha fatto una divisa. Ma è anche un lascito per i suoi successori: se vorranno esercitare un peso analogo, dovranno anzitutto possederne l'autorità morale.



DAVIDE GIACALONE Imbarazzo costituzionale


Le sentenze della Corte costituzionale dovrebbero risolvere questioni di diritto, usando il parametro della coerenza con la Costituzione. E’ naturale che da una questione di diritto discenda la soluzione di una concreta vicenda giudiziaria. Nel caso delle intercettazioni telefoniche, che la procura di Palermo aveva raccolto coinvolgendo il presidente della Repubblica, però, sembra che il caso concreto abbia prevalso sull’indicazione generale. O, comunque, le 49 pagine di motivazioni, con cui la Corte spiega perché quelle intercettazioni vanno subito distrutte, lasciano non pochi problemi aperti.
Il numero della sentenza è casuale, ma indicativo: 1/2013. La prima dell’anno appena iniziato. Si legge: “il presidente della Repubblica deve contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni”. Giusto. Ma: la riservatezza delle comunicazioni è un diritto costituzionalmente riconosciuto a tutti i cittadini, derogabile solo ove la legge lo consenta. Nel caso delle intercettazioni, la deroga è data dal giudice delle indagini preliminari. Alcune funzioni sono maggiormente tutelate, talché, ad esempio, i parlamentari non possono essere intercettati se non con l’autorizzazione della Camera d’appartenenza. Ebbene: dove si fonda la speciale tutela del presidente? Da nessuna parte, credo. E’ vero che egli è costituzionalmente irresponsabile, ma solo per l’esercizio delle funzioni elencate in Costituzione. Parlare con un signore che si lamenta di talune indagini non rientra fra quelle. Cosa significa “assoluta”? Alla Consulta sanno bene che il concetto è fumoso, nonché esistente la procedura che fa venir meno le guarentigie del Colle.
Capita, inoltre, che parlamentari e governanti vengano intercettati senza alcuna autorizzazione specifica, ma in base al fatto che si stava intercettando chi parla con loro. Dice ora la Corte: “se vi è divieto assoluto d’intercettazione ‘diretta’ (…) sarebbe ‘naturale’ che sussista un divieto (…)” anche per quella indiretta. Strano uso dei verbi e del concetto “naturale”. E’ vietato o no? Sì, dice la Corte. Ma se è vietato per il presidente dovrebbe essere vietato anche per gli altri, visto che non vi è alcuna legge che distingua, né base costituzionale per distinguere (fuori dall’esercizio delle funzioni presidenziali). L’impressione, insomma, è che queste intercettazioni vanno alla distruzione, ma il problema no.
Nelle motivazioni, assai più che nel dispositivo (già conosciuto e commentato), si coglie l’imbarazzo in cui s’è trovata la Corte, dato che a fronte di un comportamento certamente illegittimo della procura palermitana hanno dovuto esaminare un ricorso relativo non al principio, quindi destinato a fissare paletti ineludibili, ma a distruggere specifiche conversazioni, inserite in uno specifico procedimento penale. Non una bella pagina, per nessuno. La procura, con il candidato Antonino Ingroia in testa, è bocciata in diritto e pesantemente ammonita circa l’uso del potere d’indagine (che è poi il potere delle toghe all’assalto della politica). Il Quirinale ne emerge come un garante che s’è ribellato quando toccato direttamente, ma che non seppe cogliere il vulnus costituzionale allorquando altri poteri sono stati intercettati e massacrati. La Corte ne emerge come un arbitro in affanno, tenuta a una sentenza il cui opposto sarebbe stato non solo inimmaginabile, ma micidialmente destabilizzante. E quando l’arbitro deve avere di simili preoccupazioni è segno che la partita, da tempo, è degenerata. 

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