L'altra sera, a Piazza Pulita, c'era Giulio Tremonti, che la Lega indicherebbe come presidente del Consiglio nel caso la coalizione con il PDL risultasse vincente anche stavolta. Visto che non accadrà, che vincano, il problema per fortuna non si pone. L'uomo comunque, nella sua indiscutibile antipatia, universalmente riconosciuta, non è uno stupido, per quanto discusso e giustamente contestato. A suo tempo inventò la cd. "finanza creativa" e fece diversi guasti. Nella seconda esperienza al Ministero dell'economia, si applicò sui cd. "tagli lineari" che per un po' servirono a tenere in pareggio i conti correnti dello Stato, tanto che ancora prima di Monti l'Italia, senza salassi tipo IMU, godeva di un avanzo primario nella partita contabile della Spesa (altra cosa è il debito pubblico).
Niente di risolutivo, nessuna riforma epocale, ma galleggiamento. Poi arrivò l'attacco finanziario ai fondi sovrani, lo spread, e le cose precipitarono come sappiamo.
Scrisse anche un libro in cui denunciava i pericoli della globalizzazione, il collasso a venire dell'economia occidentale , di un sistema di prosperità fondato su welfare e norme del mercato del lavoro piene di garanzie e tutele, comuni a tutti i paesi UE e del Nord America, provocato dalla concorrenza invincibile di chi i costi di quelle regole non doveva sopportare. Si riferiva alla Cina, allora, a cui poi si aggiunsero India, Brasile, Russia ( il famoso BRIC che si contrapponeva, trionfante, al tristo PIGS europeo ). Soluzione, per lui, era una sorta di guerra doganale, una tassazione adeguata ai prodotti provenienti da quelle aree, utile a bilanciare l'offensiva di prodotti a prezzi bassi che l'Occidente non poteva sostenere. Sappiamo che questo non è avvenuto, e che la replica del nostro mondo si vuole avvenga con la contrapposizione della maggiore qualità rispetto alla convenienza. Che mi pare una bella risposta, ma non pare che sia vincente.
Tornando all'oggi, ci sono due affermazioni di Tremonti che mi hanno colpito. La prima è la massa di denaro circolante che, secondo l'economista, è passata dai 400 miliardi di dollari di prima della crisi del 2008, ai circa 6 trilioni di oggi. Una cosa inimmaginabile.
L'altra, è l'affermazione categorica che la crescita economica è determinata dalla mano pubblica. Non ci sono altre strade.
Ora, io , come ricordo sempre, non ho studi economici alle spalle ma solo letture, e quindi sono più propenso ai dubbi e alle domande . Una è questa : gli USA da anni stanno inondando di dollari il loro mercato, e con Obama ancora di più, con un debito aumentato in un solo quadriennio del 50% che manco una guerra persa..., come mai la loro economia stenta ?
Proprio di recente è stato superato il problema del Fiscal Cliff col solito compromesso al ribasso : aumentate le tasse ai ricchi, vale a dire quelli che guadagnano oltre 400.000 dollari l'anno, restando ferme quelle di tutti gli altri , e rinviate le decisioni in ordine ai tagli alla spesa.
La questione non è risolta, perché da qui a poco si presenterà un altro gravoso scoglio : l'approvazione da parte del Congresso dell'ennesimo sforamento del tetto di spesa pubblica.
Il tema non è solo americano, visto che il problema del rapporto tra tasse, indebitamento e livello di spesa pubblica riguarda in modo serio l'Europa (drammatico per il Sud della stessa).
E poi, mica saremo appassionati ed "esperti" di cose USA solo quando ci sono le elezioni no ?
Un articolo al tema lo ha dedicato Davide Giacalone e lo propongo di seguito.
Buona Lettura
Political cliff
Gli Usa hanno evitato il
Fiscal cliff, ma devono affrontare il più complesso Political cliff. Molte
delle cose che si sono scritte sono a dir poco incomplete, quindi
tendenzialmente false, a cominciare dall’armonia bipartisan. Prima che tutti
comincino a citare le lezioni americane sarà bene che almeno le studino.
Alcuni automatismi, legati a
leggi passate, avrebbero portato, se non ci fosse stato l’accordo che c’è
stato, a tagli di spesa e maggiori tasse per 600 miliardi di dollari, a partire
dal primo gennaio. L’accordo, però, è ampiamente monco, perché lascia
impregiudicato sia il problema del debito pubblico che quello del deficit,
quindi dei tagli alla spesa pubblica, così rimandando alla fine di febbraio,
quando Senato e Camera dovranno tornare a votare per fissare il tetto al debito
pubblico. Ricordo che nell’estate del 2011 questo fu un autentico dramma, che
contribuì non poco a far crescere il nervosismo di mercati poi orientati a
speculare contro i debiti sovrani europei. Proprio l’avere lasciato in bianco
le pagine più complicate ha portato alla convergenza di parte dei repubblicani
(al Senato, dove la maggioranza è democratica, l’accordo è passato 89 a 8, alla Camera dei
Rappresentanti, dove la maggioranza è repubblicana, 257 a 167). La partita
politica, insomma, è ancora aperta.
Il presidente, Barack Obama,
può cantare vittoria, come ha subito fatto, sul punto relativo al fisco: avevo
detto che avremmo aumentato le tasse ai ricchi e lo abbiamo fatto. Piano con le
fregole imitative, piano con il dire: facciamo come gli americani. Anzi no,
facciamo certamente come gli americani: per i singoli che guadagnano più di 400
mila dollari l’anno, o per le famiglie che superano i 450, l’aliquota passa dal
35 al 39,6%. In Italia è, per i redditi che superano i 75 mila euro, al 43%
(più le addizionali, cui si aggiunge un contributo perequativo, giungendo al
48% sopra i 150 mila), ovvero esattamente quelli che Obama ha voluto
proteggere. Grazie a questa aliquota, del resto, i percettori di redditi
superiori a 400 mila sono una specie in via di estinzione, assai meno numerosi
dei Panda.
Cresce, negli Usa, anche la
tassa sulle successioni, passando da 35 a 40% per i redditi superiori a 10 milioni
di dollari. Da noi è esente solo, e se la successione è in linea retta, quel
che sta sotto a 1 milione. Facciamo come gli americani? Ci sto. Anche per quel
che riguarda la lotta all’evasione. Ma facciamolo sul serio, non a orecchio.
Scampato il Fiscal cliff
resta il pericolo del Political cliff, nel senso che quando torneranno dalle
vacanze dovranno affrontare il problema del debito pubblico (che sotto la
presidenza Obama è cresciuto del 50%, cosa mai vista in passato) e dei tagli
alla spesa. A quel punto la presidenza democratica dovrà pagare il debito contratto
con l’ala trattativista dei repubblicani. E mentre non ci vuole moltissimo a
fare accordi che servano a non aumentare le tasse, o ad aumentarle per gli
scaglioni marginali (si tenga presente che i ricchi veri non hanno redditi
rilevanti, perché sono le loro società a garantire un tenore di vita più che
soddisfacente), la cosa si fa più complicata quando si tratta di tagliare i
soldi che dallo Stato vanno verso cittadini e sistema produttivo. In un Paese
dove il 25% degli elettori (i più ricchi) paga la quasi totalità delle imposte
dirette e il 50% paga poco e riceve molti trasferimenti. Senza contare che un
debito così alto (sommato a un indebitamento privato che da noi non ha eguali)
è governabile da chi ha sovranità monetaria, ma non senza pagare prezzi
politici. In assenza di crescita sostenuta, che non c’è, l’equilibrio è
alquanto precario.
Negli Usa, come da noi, il
nodo vero e duro è quello della spesa corrente, quindi del modello di welfare.
Se non si affronta quello si corre comunque ai bordi del Political Cliff, nel
quale non saranno i ricchi a cadere, ma quella classe media, che è classe
generale, in cui s’incarnano le nostre democrazie.
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