venerdì 1 febbraio 2013

PURTROPPO NON SIAMO ALLA FINE DELLA CRISI, SIAMO SOLO IN CAMPAGNA ELETTORALE


Molto interessante , come sempre, l'articolo dell'economista Alessandro Fugnoli, ancorché non "ottimista" come più frequentemente gli capita.  In realtà, credo che il termine più adatto sia "positivista"...Predisporsi, nell'analisi degli eventi, a pensare positivo, a vedere il bicchiere a metà, mezzo pieno.
Insomma, non un irrealista.
E pertanto se le cose sono grigie e tendenti allo scuro, Fugnoli lo dice, evidenziando sempre come peraltro il tempo dimostri che il mondo tende a non finire DOMANI.
Essendo l'esame e l'analisi delle situazioni il suo lavoro, Fugnoli non esita a riferire le stime di osservatori che, a dispetto dello spread in ribasso,  prevedono  che l'Europa mediterranea sarà ancora in difficoltà nei prossimi anni e che l'Italia resterà in recessione nel 2013 in misura maggiore rispetto alle stime governative e, quel che è peggio, ci rimarrà anche nel 2014, sempre con una pessima percentuale di - 1,4%. E la Grecia, che ha visto la borsa nel 2012 risalire nettamente ma l'economia reale soffrire come sempre, finirà per uscire dall'euro. Fugnoli non sposa queste previsioni, ma avverte che il suo autore, tale Willem Buiter, che amerebbe andare controcorrente, è purtroppo uno che non di rado ci azzecca.
Ciò posto, mi sembra interessante e degna di considerazione la riflessione che l'autore propone facendo un salto grande nel tempo, proponendo l'esempio di popoli che centinaia e anche migliaia di anni fa riuscivano a trovare soluzioni condivise per scelte STRATEGICHE, che avevano come prezzo il cambiamento di abitudini, anche tradizioni consolidate, e l'obiettivo di superare situazioni di crisi profonde e generali.
Chi riesce a fare questo, a CAMBIARE, sopravvive e anzi va AVANTI. Chi difende posizioni di mera conservazione, senza accettare le situazioni mutate, adeguandosi e trasformandosi, perisce.
In fondo è semplice.
Buona Lettura


TROPPA GRAZIA 



Nel suo ultimo libro appena uscito, The World Until Yesterday, Jared Diamond ragiona sulle differenze tra gli indigeni della Nuova Guinea che studia da decenni e gli uomini della modernità. Noi siamo abituati a collegare la modernità alla rivoluzione industriale e all’illuminismo, ma se adottiamo una scala più ampia e diamo il giusto peso ai milioni di anni di storia umana che hanno preceduto la Rivoluzione Francese, il nostro mondo civilizzato e tecnologico inizia nel neolitico.
La fine del paleolitico ci porta l’agricoltura, l’allevamento, la città, lo stato, il diritto, la religione di stato, tutte cose che in questi diecimila anni abbiamo affinato molto, ma senza salti di qualità paragonabili a quello del neolitico. Quando discutiamo del rallentamento dell’innovazione (non solo tecnologica), per alcuni sempre più evidente, dovremmo dunque retrodatarne l’inizio a settemila anni fa. Dopo i primi tremila anni di neolitico ci sono stati solo perfezionamenti del nostro modo di essere, non rivoluzioni.
Diamond sostiene che i cacciatori-raccoglitori e i civilizzati hanno molto da imparare gli uni dagli altri. Le bande di quartiere metropolitane non risolvono i loro conflitti andando per avvocati e tribunali ma trovano più pratici e naturali gli stessi metodi prestatuali dei cacciatori, che a loro volta, quando ne hanno la possibilità, non esitano a impadronirsi velocemente di cellulari e computer. I cacciatori-raccoglitori sono più bravi di noi nel gestire i bambini e gli anziani e noi dovremmo fare tesoro della loro esperienza.
Diamond non ne parla, ma tra le cose (qualche volta) buone del lontano passato viene in mente il thing, l’assemblea delle tribù germaniche ancora alle soglie del neolitico che Cesare e Tacito descrissero due millenni fa. I Germani non erano comunisti e non appena potevano adottavano la proprietà privata. Erano però egualitari e meritocratici e decidevano in assemblea ogni anno come dividersi i terreni e chi eleggere come re. Durante il thing si alzava la voce e si litigava parecchio, ma alla fine si trovava un compromesso decente che veniva accettato da quasi tutti.
Quando i danesi, negli anni scorsi, hanno deciso tutti insieme di darsi all’eolico, quando i tedeschi nei primi anni Duemila hanno deciso di tagliare i salari reali e abbassare l’orario di lavoro (e lo stipendio) per fare lavorare più persone, quando gli estoni, nel 2009, si sono abbassati i salari del 20 per cento per restare nell’euro, in tutti questi casi si è visto in controluce lo spirito del thing. Ci sono stati mesi (non anni) di dibattito, si sono coinvolti partiti, sindacati, industriali e chiese, si è raggiunto un accordo in cui tutti hanno messo qualcosa e si è agito di conseguenza e con coerenza. Oggi l’Estonia è nell’euro e cresce, la Germania è in piena occupazione e i paesi scandinavi cresceranno dell’1.5 per cento nel 2013. Quanto ai danesi, la loro riconversione energetica procede secondo programma.
L’Europa mediterranea, come è noto, ha fatto molto meno per governare la crisi. L’ha negata (come i ministri spagnoli che nel 2010 sostenevano che le case avevano finito di deprezzarsi) o ha preferito non fare quasi niente e continuare a litigare. In questo modo ha lasciato prendere le decisioni spiacevoli a due entità ruvide e brutali, l’Europa e il mercato. L’Europa ha imposto l’austerità di bilancio a qualsiasi costo, senza specificare se andasse conseguita con più tasse o con meno spese. Il mercato ha imposto la svalutazione interna nel modo più sanguinoso possibile, la disoccupazione selvaggia e il conseguente calo del costo del lavoro.
L’Europa mediterranea non è comunque stata un blocco unico, ma ha proceduto e procede a diverse velocità. La Spagna e il Portogallo, che qualche thing l’hanno pur visto nei tre secoli in cui furono popolati e governati da Visigoti, Alani e Suebi, hanno proceduto nel complesso con più ordine. C’è stato un minimo di accordo bipartisan che ha permesso di tagliare ordinatamente le retribuzioni degli statali e di rosicchiare quelle del settore privato. Quanto all’austerità, i tagli di spesa risultano ad oggi leggermente prevalenti rispetto agli aumenti di tasse. Il risultato è che la disoccupazione, sia pure a livelli stellari, è in via di stabilizzazione. Il costo del lavoro è sceso, la competitività è migliorata, le esportazioni salgono in misura significativa e nel 2013 si vedrà per la prima volta un attivo delle partite correnti in Spagna.
L’Italia non ha fatto in tempo a vedere i thing dei Goti, perché i Bizantini li hanno sterminati con inaudita ferocia, mentre i Longobardi si sono fatti presto assimilare senza lasciare traccia. Dopo la crisi del 2008 un accordo importante è stato raggiunto l’anno scorso sulle pensioni, ma su tutto il resto si è preferito litigare e rinviare i problemi, all’americana (con la differenza che gli Stati Uniti hanno i tassi a zero e un certo livello di crescita). L’austerità di bilancio è stata realizzata nel modo peggiore, attraverso le tasse, e non si intravedono approcci molto diversi in futuro. La disoccupazione non è aumentata molto, perché le imprese hanno provato a resistere più a lungo che in Spagna, ma il risultato è che la competitività non è migliorata e l’Italia continuerà ad avere le partite correnti in passivo nonostante il crollo di consumi e importazioni. Nei prossimi mesi le imprese saranno costrette a licenziare e la disoccupazione salirà rapidamente. Avremo anche noi, a quel punto, la nostra svalutazione interna.
Quanto alla Francia, le condizioni di partenza sono molto migliori delle nostre, ma la dinamica della competitività è simile. La conseguenza è stagnazione a perdita d’occhio.





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