sabato 30 marzo 2013

UN PRESIDENTE COMUNISTA MA DALLA SCHIENA DRITTA


Un Comunista dalla schiena dritta. Questo è Giorgio Napolitano, e lo ha dimostrato particolarmente alla fine del suo mandato, quando, di fronte alla bufera dei mercati e all'ira dell'Europa che conta per i nostri tentennamenti e inganni nel mantenere le promesse fatte, ha preso in mano la situazione e si è inventato il governo Monti. La situazione era di un'emergenza tale che forse stavolta i partiti si sarebbero decisi a fare quelle riforme che da più parti e da tempo vengono indicate come indispensabili per uscire dalla palude in cui affondiamo, specie ora che il gioco del debito pubblico è vietato. All'inizio è anche sembrato vero, quando in un mese Monti portò a compimento la ventennale riforma pensionistica (ancorché creando dei problemi irrisolti, quello dei cd. esodati : senza lavoro e senza pensione per essergli stata spostata in avanti l'età minima per il diritto alla stessa ) , risparmiando sia sulla durata che sull'entità del trattamento previdenziale. Dopodiché si è visto un grande agitarsi, molti annunci, ma di riforme utili più nessuna. Però l'Europa è stata, almeno in parte e per il momento, soddisfatta lo stesso perché a colpi di tasse, IMU in primis, i conti correnti una raddrizzata l'hanno avuta. Non era la strada maestra, che è quella di tagli alle spese e riduzione fiscale specie a favore del lavoro, sburocratizzazione massiccia, efficienza anche a livello economico del sistema giustizia, con processi celeri, decisioni applicate, tutte cose chimeriche in Italia da altro che 20 anni...
Però, se noi italiani siamo così stolti che solo attraverso i prelievi aggiustiamo i conti, peggio per noi, l'importante è che rispettiamo i vincoli di bilancio....
Già, ma così facendo tra un po' siamo belli che morti....visto che dopo un anno di cura stiamo peggio di prima (bilancio a parte ! ) : recessione, più disoccupazione, più debito, più tasse....consumi in picchiata e chiusura di negozi e imprese, più debito pubblico.
Insomma non un grande risultato, ma certo non è colpa di Napolitano che ci ha provato.
Dopo le elezioni, con nessuna maggioranza possibile se non attraverso nuove e complicate alleanze, il Presidente si è rifiutato di assecondare il suo ex partito nell'insistenza proterva di proporre un governo che sfidi ogni volta la fortuna in Parlamento...cioè le esperienze disastrose del secondo governo Prodi e del terzo Berlusconi dopo la diaspora finiana. Due casi in cui, per circa DUE anni, praticamente ogni giorno il governo doveva trattare e conquistare la sua sopravvivenza....In tempo non di crisi e di emergenza finanziario-economica magari si può anche sopportare, ma con noi che siamo ad un passo dal richiedere l'aiuto della troika UE,FMI e BCE , o comunque del fondo salva stati ?
In sostanza l'alternativa è..o provare NOI a fare le cose che devono essere fatte, cercando in questo modo di distribuire e gestire modi e tempi, oppure accadrà anche in Italia ciò che abbiamo visto accade altrove, dove se il parlamento non vota sotto dettatura, i soldi per bancomat e stipendi non arrivano più...
Napolitano queste cose le sa, continua a spiegarle ma i tre partiti maggiori gli oppongono la sordità con cui erano punite le parole di Cassandra. Dei tre, il più protervo, forse per lo shock della vittoria mutilata, forse per le faide interne che solo il successo elettorale poteva tenere definitivamente a bada (succedeva così alla DC dalle mille correnti : ad un certo punto l'unico collante era l'occupazione del governo ), è proprio il PD, il suo partito. Pare che Bersani sia molto alterato dal rifiuto del presidente - uno dei loro ! - di assecondarlo...
Forse perché la responsabilità, di cui tanto parla, per lui è uno slogan, e per il capo dello Stato un dovere.
Bello il profilo tratteggiato da Martino Cervo su Libero del Presidente Napolitano alla vigilia della fine del suo mandato.
Buona Lettura



di Martino Cervo
L’Italia torna sul tavolo del Quirinale. L’ultima e unica sede reale di pensiero politico operativo nella drammatica fase del nostro Paese riporta indietro, per piglio presidenzialista, all’autunno 2011, quando Giorgio Napolitano prese in mano la situazione il giorno stesso della fotografia parlamentare della dissoluzione della maggioranza del Cavaliere e mise in sella Mario Monti, con la chirurgica operazione che lo fece passare da Palazzo Madama a Palazzo Chigi in una manciata di ore. Napolitano si conferma interprete di pragmatismo totale del mandato e dei confini costituzionali, sfornando a distanza di un anno e mezzo un altro inedito assoluto nella storia di quella Repubblica italiana che ha attraversato da cima a fondo, dai Guf al Pci, dalla presidenza della Camera al Colle. La novità di ieri è un premier incaricato (Bersani) che resta formalmente nel suo ruolo ma è di fatto sotto tutela, commissariato da un capo di Stato che si è caricato sulle spalle l’incombenza di trovare l’accordo politico che il segretario del Pd non è riuscito a sintetizzare.
Il no di Napolitano - La sberla rifilata ieri da Napolitano al «suo» leader conferma l’assoluta originalità del capo di Stato, che di fatto da tempo si è posto su un terreno tutt’altro che coincidente con gli interessi della formazione che l’ha pur sempre sistemato al Quirinale dopo il quasi pareggio del 2006. Se già nell’ora del disfacimento del sostegno in Aula al governo Berlusconi sotto la bufera finanziaria (novembre 2011) il Colle aveva tirato fuori dal cappello la soluzione Monti preferendola al salto di elezioni anticipate che pure con forti probabilità il Pd avrebbe vinto, è con la scelta di ieri che la frattura con Bersani si è resa esplicita. Il leader Pd voleva andare in Aula a cercare fortuna, tempo e voti. Il capo di Stato ha detto no, tenendo fede alla sua richiesta di «numeri certi» per qualunque ipotesi politica. Richiesta che già di per sé ha messo il presidente della Repubblica e il candidato premier della sinistra in rotta di collisione neppure troppo sottotraccia.
Il monito - La cauta originalità del migliorista che aveva prima plaudito all’invasione dei cingolati sovietici di Budapest (1956) e poi (1974) giustificato l’espulsione di Solzenicyn dall’Urss ha via via preso i toni del decisionismo felpato ma definitivo, al crescere del cursus honorum  (dieci legislature in Italia, due in Europa) e nelle svolte della storia. L’ultimo guizzo dell’88enne (a giugno) Napolitano sarà fatale alla tenuta stessa del Pd, che già viene considerata a rischio se dovesse nascere una forma di intesa col Pdl benedetta dal Colle? Alcuni elementi della sua storia sono perfettamente in linea con una concezione laica di riconoscimento istituzionale dell’avversario. Non è un caso che all’inizio delle consultazioni proprio Napolitano abbia sottolineato la fondatezza della preoccupazione del centrodestra di «partecipare adeguatamente a questa complessa fase politico-istituzionale». Adesso fa quasi sorridere, ma nella primavera 1994 fu Giorgio Napolitano, allora Pds, a tenere il discorso ufficiale del suo partito in occasione del voto di fiducia al nuovo premier: «L’evoluzione del sistema politico italiano», disse allora, «sarà oggetto di grande attenzione in Europa. Comprensibilmente, perché vi è malessere nelle democrazie europee, disagio nel rapporto tra cittadini e istituzioni, contestazione di partiti tradizionali, e ci si chiede quali vie possa prendere nei nostri paesi la politica, in nome dell’antipolitica». Finì conBerlusconi che andò ad applaudirlo e stringergli la mano. Ma non è neppure un caso che, dai tempi in cui si fece scappare Licio Gelli da ministro degli Interni incappando negli strali di Micromega che ne chiese le dimissioni (1998), con la parte manettara della sinistra Napolitano ha sempre incrociato le lame. Lo ha fatto più volte richiamando le toghe entro i loro confini. E lo ha fatto agendo in maniera muscolare sulle accuse a lui rivolte a proposito delle telefonate intercettate nel corso delle indagini sulla presunta trattativa Stato-mafia. Proprio lui, che nel 1993 da presidente della Camera aveva reso palese il voto per le autorizzazioni a procedere sui deputati.
Camaleonte ormai calato da decenni nei gangli del potere italiano, Re Giorgio con la scelta di ieri prolunga ed estende il suo personalissimo presidenzialismo, mettendo nei guai un Pd stretto tra difesa formale di un segretario «ibernato» nel suo incarico e trattativa reale su altri nomi. Forse il capo di Stato presenta un solo, vero limite nella sua indispensabile eccezionalità in un Paese rimasto senza baricentri: nessuno dei suoi tentativi è pensabile, come futuro portato politico, senza lui stesso nel ruolo di interprete. O è una forza?

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