domenica 21 aprile 2013

SE GRILLO E I SUOI SONO IL NUOVO, ALLORA TENIAMOCI IL VECCHIO

 
Alcune considerazioni l'indomani della rielezione di Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica.
1) Formalmente, ma anche sostanzialmente, è stata un'elezione assolutamente democratica, oltretutto di una persona che in tantissime occasioni aveva rifiutato la ricandidatura , sia per motivi di età (88 anni tra pochi mesi...) che per fedeltà ad una prassi consolidata, ritenuta corretta. MAI un presidente era stato rieletto, e questo è in linea con la lunghezza del mandato (ben sette anni) e col principio del rinnovo delle cariche istituzionali. Soltanto l'eccezionalità della situazione, l'inpasse grave creatasi, hanno spinto Napolitano a ripensarci. Dopodiché è stato votato da 738 grandi elettori, non solo ben più della maggioranza necessaria, ma anche dei due terzi richiesti e auspicati dalla Costituzione per i primi tre scrutini (ed eravamo al sesto)  e il quarto miglior risultato della storia repubblicana.
2) Qual'è il concetto di democrazia di Grillo e dei suoi ? Parlare scompostamente - e pericolosamente- di "golpe" e di milioni di persone convocate a Roma, non depone molto bene in questo senso. Specie di fronte ai numeri sopra detti. Ma tutta questa arroganza e presunzione da dove viene ? Dagli 8 milioni e mezzo di voti ? Certo, un grande risultato elettorale, ma ancora lontano dalla maggioranza assoluta. Anzi. Ci sono 40 milioni che non li hanno votati. Dunque ? Senza contare che per un mese e passa Bersani aveva corteggiato e lusingato il M5S ricevendo per lo più sberleffi e mortificazioni.. Adesso Grillo voleva che il PD aderisse al suo capriccio presidenziale...Che altro era Rodotà ? Un uomo che coi grillini c'entra poco, che Grillo a suo tempo indicò come esponente della Casta, con la sua pensione d'oro. Adesso, improvvisamente, era diventato l'uomo della provvidenza . Perché? perché l'aveva deciso lui., il grande capo. Probabilmente Grillo avrà anche conquistati voti a sinistra in questo periodo, dopo averli persi con i suoi niet a Bersani. Ma certo è che ha compattato alla grande il fronte contrario. Vedere l'aggressione verbale subita da Franceschini in un ristorante non è una bella cosa ma aiuta a capire. Se questo è il nuovo, allora mi tengo il vecchio.
3) Monti e Lista Civica si sono comportati bene. Tenendo dritta la barra di un partito di centro, equilibrato e che con gli ortotteri pentastellati non ha nulla a che fare. Buono il dialogo con il centrodestra
4) Berlusconi anche esce bene da questa prova. Prima, mostrando disponibilità a votare un candidato del PD, purché ovviamente non ostile pregiudizialmente  a lui e al centrodestra . Poi, mostrandosi scettico ma disponibile per la Cancellieri, proposta dai montiani, e quindi tra i grandi sponsor per la rielezione di Napolitano. Infine, nel non infierire mai sul caos del PD, consapevole che il disfacimento dell'importante competitor porterà a cambiamenti tutti da verificare. Detto questo, il centrodestra dovrebbe approfittare del tempo che potrebbe venire da questa nuova situazione per pensare anch'esso al futuro. Il PD, dopo le dimissioni del Cavaliere da Palazzo Chigi nel novembre 2011, era ragionevolmente convinto di vincere facilmente le elezioni, stante la crisi profonda dell'avversario, e ha commesso un errore dietro l'altro, primo tra tutti scegliendo Bersani anziché Renzi come candidato leader. Adesso stanno come tutti vedono. Ecco, il PDL non sta tanto meglio.
5) Il PD. In tanti hanno scritto note e commenti illuminanti sul disfacimento in atto nel partito democratico. Quello di oggi, di Michele Salvati sul Corriere, si inserisce adeguatamente e lo propongo.
Al punto in cui sono arrivati, io credo che debbano prendere definitivamente atto che la fusione a freddo tra il centro della Margherita e la sinistra dei DS, avvenuto a fine 2007, ha avuto la sua crisi di rigetto. Divisi, possono parlarsi ed allearsi, come hanno fatto per lustri la Margherita e gli ex PCI, ma stare nella stessa casa, no.
E bisogna fare i conti con le nuove generazioni, quelle arroganti e indisciplinate come Orfini e Moretti (quest'ultima bell'esempio di giuda al femminile, nei confronti di Bersani a cui deve TUTTO ) , che hanno più contiguità con il radicalismo di certi grillini, e che nulla c'entrano con una formazione liberal, socialdemocratica e laburista. O con i democrats americani, e il pur amato Obama (a proposito, l'idolo della sinistra progressista si è prodigato in felicitazioni per la rielezone di Napolitano...).
 Meglio che facciano una  "nuova cosa di sinistra" con Sel, Vendola,  Barca, magari Azione Civile (Ingroia e i comunisti superstiti ) e allearsi, se ci riescono, con Grillo.
Una Sinistra Estrema. E vediamo chi la vota.
Il tutti insieme, senza più nulla in comune, e senza potere da distribuire, non regge più.
E non è affatto un male.
Prima di lascoarvi alla nota di Salvati, una piccola soddisfazione personale. Sono rimasto deluso del Bersani post elezioni, la sua ostinazione, la sua pervicacia. Ma ho anche scoperto chi erano i suoi "spin doctor". Uno di questi, Miguel Gotor. Bene, sentire che questo arrogantissimo uomo sia stato costretto al disorientamento e allo scorno del crollo del PROPRIO disegno personale, è veramente una cosa meravigliosa.
Buona Lettura

 “Il Pd, la rana che si credeva un bue” 
 
Il collasso del Pd come partito è così palese, e sono così evidenti gli errori che hanno fatto i suoi dirigenti nella conduzione del passaggio post elettorale, che la mia prima reazione è: non prendetevela solo col Pd, non sparate sulla Croce Rossa! Scavate più a fondo per capire le ragioni della crisi finale della Seconda Repubblica, di un vecchio che è morto e di un nuovo che non riesce a nascere. Un Pd diviso su tutto e indeciso a tutto, guidato (si fa per dire) da una dirigenza illusa dai seggi conquistati grazie a un premio di maggioranza che sfida la legittimità democratica, era destinato a questa fine: come la rana di Esopo che si crede bue — sto parafrasando un bellissimo tweet di Claudio Petruccioli — si è gonfiato sino a scoppiare. La truffaldina maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato hanno fatto dimenticare ai dirigenti del Pd due verità fondamentali in ogni calcolo politico. Di essere solo una minoranza nel Paese e, soprattutto, di non essere una minoranza compatta e manovrabile: la «ditta» di oggi non è più, né mai potrà più essere, il grande Partito con la P maiuscola che Bersani ha sempre avuto in mente. Costretto dai numeri a prendere l'iniziativa, dovendo abbandonare la comoda posizione di agire di rimessa, le spaccature interne sono diventate evidenti. Volendo semplificare, ci sono almeno cinque linee di faglia che si intersecano e sovrappongono all'interno del Pd. La prima è quella che attraversa tutti i partiti della sinistra democratica europea ed è una faglia dannosa, ma non esiziale: la divisione tra coloro che rimpiangono le politiche della socialdemocrazia nei trent'anni gloriosi del dopoguerra e coloro che ritengono non siano più attuabili e occorra una sterzata in direzione liberaldemocratica, se si vuole restare un partito di governo. Questo contrasto, che altrove viene risolto con vinti e vincitori, c'è anche nel Pd ma non è stato mai affrontato seriamente: spazzato sotto il tappeto, riemerge quando è necessario prendere decisioni importanti. Tutte le altre linee di faglia, le più insidiose e meno idonee allo scopo di definire l'identità di sinistra del partito, non sono linee europee ed hanno a che fare con la storia contorta, lontana e recente, del nostro Paese. Il Pd è nato da una fusione oligarchica tra elite ex comuniste ed elite provenienti dalla sinistra democristiana: la vecchia faglia laici/cattolici, che in altri partiti di sinistra europei non esiste o ha minor rilievo, si è dunque aperta sin dall'inizio nell'Ulivo e nel Pd, e ha creato danni anche in occasione di questa elezione del presidente della Repubblica. Ma tra le faglie di origine nostrana la più grave è di origine assai più recente, quella tra anti-berlusconiani duri e puri e tra coloro che, pur critici di Berlusconi, tengono conto del fatto che il Cavaliere ottiene il consenso di un terzo degli italiani: la si è vista in opera in modo drammatico in queste elezioni presidenziali. L'origine e la profondità di questa faglia stanno nel fatto che essa nasce da un moto di indignazione spontaneo nei confronti di una evidente «unfitness to rule», inidoneità a governare, come l'ha definita l'Economist, di Silvio Berlusconi. Nasce nella società civile, nel mondo dei media, delle associazioni, dei social network. E la dirigenza del Pd, in mancanza di idee forti e ampiamente condivise sui temi cruciali delle politiche economiche e sociali, sui veri temi di destra e sinistra, l'ha ampiamente cavalcata. Le cosiddette parlamentarie del Pd hanno mandato al Senato e alla Camera un gran numero di giovani: quanti di loro hanno in proposito idee diverse dai seguaci di Beppe Grillo? A proposito di giovani, veniamo alla faglia — interna ai militanti e dirigenti del partito — tra giovani e vecchi, tra rottamatori e rottamandi. Credo si tratti di una faglia minore, presente dai tempi di Roberto Michels in tutti i partiti, ma in Italia più insidiosa per il conservatorismo dei ceti dirigenti, per i patti parasociali tra i partiti che hanno dato vita al Pd e per la forte assonanza con le polemiche anti-casta diffuse nella società e più intense che in altri Paesi. Molto più grave è l'ultima faglia, anch'essa assente nei sistemi istituzionali più consolidati degli altri Paesi europei: lo scontro tra innovatori e conservatori istituzionali, tra coloro che considerano la nostra Costituzione «la più bella del mondo» e coloro per i quali la forma di governo disegnata nella seconda parte non è più in grado di governare efficacemente e democraticamente un sistema passato dalla democrazia dei partiti (Pietro Scoppola) alla democrazia del pubblico (Bernard Manin). Con bonomia emiliana, con tecniche da conte zio — «troncare, sopire» — ma in realtà appoggiandosi al fronte conservatore, Bersani e i suoi hanno cercato di tenere in piedi la ditta fino a quando è stato possibile. Poi è arrivato il tempo delle decisioni, le faglie si sono mosse e c'è stato il terremoto. La domanda è se la ricostruzione — semmai di un edificio di minori pretese ma meglio costruito — arriverà in tempo per le prossime elezioni e sarà in grado di cancellare la cattiva immagine che il Pd ha dato di sé in questi ultimi tempi.


Nessun commento:

Posta un commento