martedì 28 maggio 2013

MENTRE L'ITALIA SI CHIEDE COME MAI COSì TANTI ASTENUTI, I ROMANI SONO STUPITI DEL CONTRARIO : "PURE TROPPI ! "


Curioso e accattivante l'articolo che Mattia Feltri della Stampa scrive per raccontare il clamoroso fenomeno dell'astenzione a Roma, arrivata a disertare per la metà le urne. Il giornalista gira un po' tra personaggi noti della capitale, chiedendo loro una possibile spiegazione e le risposte che raccoglie sono un mix di battute, verità amare e disincanto.
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ANSA
Altissima la disaffezione nella capitale

 
Il poeta romano Valerio Magrelli legge una targa «Dice: si proibisce espressamente a tutte le singole persone che non arrischino fare il monnezzaro pena scudisciate». È del 1746, nel rione Sant’Eustachio. E cioè Roma la sozzona è tale da sempre, o da molto, e però adesso, dice Magrelli, la differenza è che il monnezzaro «lo fa la casta». Il riferimento storico aiuta. Enrico Montesano (il Rugantino di Garinei e Giovannini edizione 1978) sta studiando la Repubblica romana e la congiura di Catilina: «Si compravano i voti, si compravano i giudici...». Ride. Roma è questa, da sempre. «Roma è una via di mezzo fra un suk, un luna park e una camera a gas, e Alemanno ha perfezionato il mix», dice Roberto Gervaso, che è torinese ma vive a Roma da decenni, e nell’ombelico del mondo, dietro al Colosseo. La sintesi: un romano su due non è andato a votare per un insieme di ragioni eterne e moderne. Ancora Magrelli: «Roma è una città che vive di politica, ne è così storicamente vicina e intrisa che forse più di altri ne sente il ribrezzo»; il cardinale di Giuseppe Gioachino Belli travolgeva i passanti con la sua carrozza, adesso «è l’auto del ministro, e la nausea è irresistibile».

È difficile spiegarsi perché nella capitale l’astensione è dieci punti sopra la media nazionale. Maurizio Costanzo si definisce «dispiaciuto» perché non sa darsi una risposta. «Non mi si parli della partita Roma-Lazio perché è una sciocchezza. Seguo incredulo una disaffezione seria alla politica che non appartiene a Roma». Roberto D’Agostino, anima del sito Dagospia, nemmeno accetta la spiegazione della tornata amministrativa, meno attraente di quella politica: «L’elezione del sindaco di Roma non è un fatto locale, è da sempre un fatto politico». Ed è esattamente questo il motivo per il quale «non sono andato a votare, ma ho preferito fare una passeggiata col mio cagnolino, un labrador che si chiama Zen perché, a differenza di tanti nostri politici, ha una visione orientale dell’esistenza». Dice D’Agostino che tanti se ne sono andati a spasso col loro Zen, o con la fidanzata, perché «anche gli elettori comuni, anche chi non legge i giornali e non sta su internet, si è reso conto che il nostro è un paese a sovranità limitata, come la Francia o la Spagna, e tutto dipende da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Non ci si prende il disturbo di votare gente che non conta nulla». La spiegazione funziona, ma perché a Roma il fenomeno è più marcato che altrove? «Non sono un sociologo - dice Montesano - ma mi soccorrono i detti della mia città: il peggio non è mai morto. Oppure: chi de’ speranza vive disperato more. Roma è anche questa, distaccata, disincantata, cinica. Può essere che stavolta stia anticipando o inasprendo tendenze generali».

Venti anni fa, Maurizio Costanzo contribuì alla salita al Campidoglio di Francesco Rutelli: «Me la ricordo come una campagna bella, febbrile, piena di attese. Chissà, magari venti anni dopo la Seconda repubblica si dimostra ripetitiva a livelli ormai insopportabili». Gervaso pensa proprio di sì: «Sono persino stupito che uno su due a votare ci sia andato. Io no, non ci vado da tempo. E poi sotto il regno di Alemanno sono caduto in strada quattro volte a causa delle buche. Non ti voto se cado quattro volte. Altro che grandi teorie. Questa città è stata amministrata malissimo da Alemanno, che oltretutto ha il dono dell’antipatia e di una inconsapevole protervia. 

E Marino non è tanto meglio con quell’aria untuosa, gelatinosa e giulebbosa. I romani non sono stupidi: avvertono l’impoverimento di una classe dirigente senza più scuola, o addirittura orgogliosamente incompetente». La diagnosi si rivela complicata e complessa. Montesano: «I miei figli più giovani, che sono sulla ventina, non sono andati a votare. Mi hanno chiesto: che importa? Io ci sono andato, ho votato per Grillo ma ho sempre cercato di dare il voto dove si promette una novità». E forse proprio il disastro a cinque stelle dà indicazioni importanti: «Credo che dopo l’ingresso in Parlamento il M5S abbia dato prove incomprensibili», dice Magrelli. Ha avuto un comportamento contraddittorio, deludente per gli elettori classici di sinistra che si erano affidati a lui. «Il più grande comunicatore non si è fatto capire, e molti non sono riusciti a rivotarlo», aggiunge Magrelli. D’Agostino dà perfettamente il quadro: «Ma sì, ha già scocciato tutti. O ci va lui a fare il parlamentare, il sindaco, o sennò a me che mi frega di avere come guida uno come Vito Crimi? Se le cose stanno così, Grillo, in quel posto vacce te». Non è la gente che ha abbandonato la politica, ma la politica che ha abbandonato la gente, dice ancora Dago. Non c’è spiegazione che basti, non c’è spiegazione che non funzioni. Per esempio, e per chiudere, ecco Montesano: «Mi chiedete perché, a differenza dei mie figli, sono andato a votare. La verità è che non lo so».

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