venerdì 3 maggio 2013

PARLARE BENE DI LETTA E' PIù CHE PREMATURO, PERO' GIà PARLA MEGLIO DI MONTI


Quando nel novembre 2011 sorse il governo dei professori a guida Mario Monti furono in tanti ad applaudire. Per tantissimi il motivo unico e sufficiente era che sbaraccava Berlusconi, e quindi tutto era meglio. Per altri, più in buona fede, c'era veramente la speranza che al posto dei politici arraffoni e comunque troppo preoccupati solo delle loro sorti personali, al governo del Paese fossero approdate persone sobrie, oneste, competenti. In effetti sui primi due aspetti per la stragrande maggioranza il governo tecnico è stato encomiabile. Ma sulla competenza, i delusi sono legioni.
Del resto basta vedere come Cincinnato, cioè Mario Monti chiamato a salvare la patria, sia stato rispedito ai suoi campi senza alcuna parola di lode e di ringraziamento. Ma noi italiani si sa, siamo facili agli entusiasmi e alle rudi detronizzazioni.
Certo, nemmeno si leggono molte parole di autocritica dai parte dei laudanti del 2011. Per esempio Giuseppe Turani, che è stato uno dei giornalisti economici che quasi fino alla fine si sono spesi per Monti e la sua agenda, non ha mai scritto una riga in cui abbia ammesso di essersi sbagliato, di aver riposto una fiducia eccessiva sul vecchio Presidente della Bocconi.
Davide Giacalone non appartiene a questo vastissimo gruppo di corifei , e fin dalla prima ora.
Devo dire che abbastanza presto si posero su una posizione di critica attiva (nel senso di costruttiva)   anche i due colleghi bocconiani, professori esimi ed editorialisti del Corsera, Alesina e Giavazzi. Ma l'opinionista di Libero e Tempo da subito avanzò dei dubbi sull'orientamento montiano e non certo per pregiudizio. Semplicemente perché Giacalone non ha MAI creduto allo Spread come frutto delle politiche nazionali. Oggi lo dicono tutti, a fronte di una Italia che ha un debito maggiore del 2011 ( quasi il 130% del Pil, allora era il 120%), una recessione che ha preso il posto della stagnazione, disoccupazione aggravata e sistema creditizio asfittico, eppure lo spread ha un  livello inferiore a quello dell'estate di allora !
Del resto, la diminuzione dello spread riguarda tutti i paesi che pure hanno sofferto e soffrono di questo "male" : Spagna, Portogallo, Grecia....eppure per nessuno di essi la crisi vede vera luce ancora.
No, lo spread è un problema legato all'ibrido europeo di una moneta e banca centrale uniche laddove le politiche fiscali e i debiti restano nazionali. Poi c'è l'altro problema della fiducia dei mercati, ma anche qui, a questi interessa solo che i debitori siano garantiti. Se lo fa - come in effetti lo sta facendo - la BCE al posto delle singole banche centrali, a loro va bene lo stesso. Se poi le varie Nazioni riprendessero a crescere, ecco che la cosa andrebbe ancora meglio. Resta comunque il fatto che le borse hanno registrato un ottimo 2012 e anche il 2013 sta andando bene. E questo, lo ripetiamo, mentre i dati dell'economia reale sono negativi per tutta l'area europea, ovviamente con andamenti differenti tra Nord e Sud.
Ciò posto, Giacalone non ha nemmeno mai sottaciuto che l'Italia dei problemi veri e seri di suo ce li ha eccome, ma che per risolverli la ricetta tedesca ha chiaramente mostrato di NON funzionare.
Predica per questo la ripresa del deficit spending ? Assolutamente no. Ed è un fiero sostenitore della riduzione della pressione fiscale (lui da repubblicano liberale, ma Ricolfi gli fa eco da Liberal blairiano...) . Sul problema delle risorse, ha scritto pagine e pagine su quella che sarebbe la via maestra :
1) dismissione di asset di patrimonio pubblico, in forme adeguate ad evitare svendite ed assicurare un gettito immediato da destinare esclusivamente all'abbattimento del debito pubblico
2) tagli alla spesa pubblica, da realizzare attraverso una riorganizzazione dei settori principali, sanitario in primis, con un nuovo accentramento che impedisca sprechi e disfunzioni ( a solo titolo di esempio, macchinari e protesi che a nord costano 1 e a sud 5....). Giavazzi, in perfetta sintonia, parla da tempo di una correzione del welfare che venga tolto, o di molto ridotto, ai benestanti e oltre, a fronte di una riduzione delle tasse. Non è giusto che l'accesso agli ospedali o all'università costi allo stesso modo al "ricco" come al "povero".
3) contemporaneamente a queste due cose, Giacalone sostiene che si possano sia ridurre le tasse (come sopra ricordato) che rimediare un po' di risorse per la spesa produttiva. Vale a dire non quella che serve a pagare stipendi pubblici ma a incentivare la creazione di lavoro, attraverso la realizzazione di infrastrutture utili al sistema economico e al contempo all'immediata occupazione.
Da queste convinzioni, nasce il favore iniziale e prudente di Giacalone al neonato governo Letta, che a suo vedere se non altro ha lo sguardo rivolto nella direzione prevalentemente giusta, mentre  già solo  gli occhi Monti li volgeva dalla parte errata.
Per ora si parla solo di sguardo, vedremo i primi passi.
Buona Lettura




Le tre tappe europee di Enrico Letta hanno segnato un successo politico e anche una correzione programmatica. Si tratta solo dell’acchito, della prima palla sul biliardo, con la partita ancora tutta da giocarsi. Ma non va sottovalutato. Dalle dichiarazioni programmatiche Letta era partito con un richiamo alla maggiore integrazione europea, condita con la consueta retorica sul continente delle due guerre mondiali, e con un menù di provvedimenti di spesa. La prima cosa troppo generica e la seconda troppo costosa. All’ultima conferenza stampa, quella con Barroso, ha detto che ci si deve concentrare su poche cosa da farsi. Ma veramente. La posizione dell’Italia, inoltre, è ribaltata rispetto a quella impostata dal governo Monti. Ed è migliore.
La prima tappa, in Germania, è stata rituale e inconcludente. Il cancelliere federale ha ripetuto che l’Italia è sulla buona strada, facendo crescere la voglia di farle osservare che lei, invece, no. La stampa e la classe politica di Germania guardano all’Italia come a un Paese chiassoso e inaffidabile, che si presenta sempre con facce diverse. Sta di fatto, però, che il nostro deficit è sotto controllo da tre anni, mentre il loro no. Che il nostro debito pubblico è alto ma non ha poste occulte, mentre il loro contiene occultamenti. Che la disciplina bancaria imposta dalla Banca d’Italia è superiore a quella praticata dalla Bundesbank. Che noi prestiamo i soldi ai greci rimettendoci, mentre loro ci guadagnano e fanno credere d’essere generosi. Che noi abbiamo sacrificato molto all’integrazione dei mercati europei, mentre loro vogliono usare l’insufficiente integrazione monetaria per indebolire il nostro sistema industriale. Quando la finiremo con la sudditanza culturale e politica saranno i tedeschi a dovere dare dimostrazione d’affidabilità.
La seconda tappa, a Parigi, ha creato una sponda proprio per questo lavoro. I francesi sono nazionalisti e (legittimamente) pensano ai propri interessi, ma si rendono conto che non sono affatto tutelati in un’Europa germanocentrica. Si deve lavorare per portarli a sostenere la nascita di un vero sistema bancario europeo, che riconosca la centralità, anche vigilante, della Bce. Le dichiarazioni ufficiali, dopo gli incontri, non dicono nulla d’impressionante, ma il clima è quello buono. Francia e Italia possono essere utili l’una a l’altra.
La terza tappa, a Bruxelles, s’è anche questa conclusa con dichiarazioni rituali. Parzialmente equivoche: sì all’elasticità, ma con rigore dei conti. Che non vuol dire nulla. Ma è servita, spero, per chiarire che il problema non è solo la rigidità dei tedeschi, bensì anche l’errore politico ed economico di quel che esiste del cuore istituzionale Ue. Andando avanti così l’Unione si sfascia, perché non resisterebbe all’uscita di uno o l’altro dall’euro. E andando avanti così a quello s’arriva. Poi, certo, dalle parole ai fatti c’è ancora molto vuoto da colmare, ma forse è iniziata una pagina diversa. Consentita pure dal fatto che, finalmente, la lunga e straziante campagna elettorale tedesca volge al culmine (a proposito di classi dirigenti miopi ed egoiste, di politicanti attenti solo alla propria sorte).
Il fronte va ora allargato. L’Italia non deve essere la capofila dei disgraziati e degli indisciplinati, ma di quanti hanno già pagato più di altri. Non è il somaro inadempiente dei compiti a casa, ma il protagonista parigrado che ha sperimentato sulla propria pelle gli errori della politica europea. Ciò, naturalmente, non toglie che moltissimo deve essere fatto in casa nostra, recuperando immobilismi di lustri. In quanto al documento Ocse, è ovvio che a spesa pubblica immodificata non c’è spazio per i necessari sgravi fiscali. Ma, appunto, è proprio la ristrutturazione della spesa corrente che reclamiamo. Da questo, come dai passati governi.
E’ presto per dire che la missione di Letta è stata coronata da successo, ma non attardiamoci nel non vedere dove si gioca la partita vera. La partita è in corso, l’acchito è buono. E’ anche importante che fuori d’Italia si capisca che le nostre forze politiche e la nostra classe dirigente hanno capito.

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