domenica 26 maggio 2013

"TASSARE E' OPERA MERITORIA ED EGUALITARIA". E QUESTO E' UN GIUDICE COSTITUZIONALE...


Se questi sono i giudici della Corte Costituzionale, oltretutto specalizzati in materia tributaria e anche chimati a dirigere ministeri economici, beh, forse c'è da avvertirli che la dittatura di Stato è stata già sperimentata in Unione Sovietica e con pessimi risultati. Parlo di Franco Gallo, che ha scritto un libretto che uno moderato come Sergio Romano non esita a descrivere come il nuovo libretto rosso per rivoluzionari no global e no mercato. Che poi, nel leggere i deliri ridistributivi di questi grandi burocrati di stato, mi piacerebbe dare un'occhiata ai loro redditi e al loro tenore di vita...Perché qui poi si finisce di fare la fine di Grillo, che dice "vaffa ai soldi" biasimando i suoi parlamentari che si scoprono meno distanti dai loro avidi colleghi provenienti da altri partiti, però lo fa dall'alto di un patrimonio milionario....
Gente come Gallo, che con ogni probabilità tra stipendi, pensioni, indennità, partecipazioni a convegni e anche diritti di libri sia pur demenziali come questo di cui parla Romano, in genere guadagna decine di migliaia di euro netti. Tipo Amato per dire. Certo, sostengono che loro pagano le tasse fino all'ultimo centesimo....ma tutti pagherebbero volentieri il 50% delle tasse se gli regalassero 15- 20.000 euro al mese. E userò il termine REGALARE fino a quando non avrò la prova che questa gente guadagnerebbe le stesse somme se a pagarli ci fosse un'Azienda che bada ai risultati e non lo Stato che, bravo o asino, se occupi un certo posto ti riempie di quattrini lo stesso.
Sergio Romano, nel commentare questo vergognoso parto di una mente sovietizzata, dove la tassazione è lungi dal dovere  principalmente garantire dei servizi ma ha  lo scopo fondamentale  di togliere agli uni per dare ad altri e livellare le disuguaglianze, ingiuste solo perché tali.
Per persone come queste tutto deve essere oggetto di tassazione, non solo i redditi, non solo i patrimoni, ma qualsiasi cosa che sia manifestazione di benessere. Non ha importanza se tizio ha 100 perché è capace e lavoro 14 ore al giorno e Caio ha 10 perché mediocre e ne lavora 8, o 6, o 4.....
Semplicemente, per Gallo, non può eticamente esistere un mondo dove uno guadagni 100 e uno 10.
Sommessamente, anche troppo, Romano fa notare che tutto questo discorso, ancorché uno lo volesse prendere in considerazione - e personalmente ritengo che al contrario un delirio siffatto meriti solo l'imbracciamento del fucile da parte  di chi non vuole essere depredato da gente come Gallo - ha una grossa lacuna, già sperimentata dalla citata URSS e neipaesi , ieri e oggi, del cd. socialismo reale : che così facendo NESSUNO produce più ricchezza, e queste santa tassazione egualitaria che Gallo sogna non avrebbe presto più polli da spremere.

E' la crescita economica il volano virtuoso di una società dove anche chi è meno capace può alla fine contare su aiuti e sostegni adeguati a farlo vivere decorosamente.
Possibile che questa gente non ci arrivi mai ??
Io ci sono riuscito a leggere tutto (peraltro la prima parte dell'articolo è una lunga premessa piuttosto interessante ) e quindi ce la potete fare anche voi.
Provate
 
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Tasse & morale - Le riflessioni di Franco Gallo testimoniano un clima sfavorevole al mercato

La ricetta degli Eguali

Un fisco redistributivo attenua gli eccessi liberisti ma trascura la crescita


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Il piccolo libro che ho appena letto non arriva a cinquanta pagine, ha parecchie note e un titolo apparentemente neutrale (L’uguaglianza tributaria). È stato pubblicato da una casa editrice napoletana che ha scelto per se stessa il nome di Editoriale Scientifica e ha il patrocinio di associazioni che fanno capo all’Università Suor Orsola Benincasa. È apparso in una collana di «Lezioni magistrali» e il nome del suo autore è garanzia di serietà accademica. Si tratta del presidente della Corte costituzionale Franco Gallo, uno dei più noti tributaristi italiani, ex ministro delle Finanze nel governo Ciampi (1993-1994) e giudice della Consulta dal settembre del 2004. Quando ho cominciato a leggerlo e mi sono imbattuto in parole come «paracomunicativo» e «sinallagmatico», ho creduto di avere tra le mani un freddo manuale di diritto tributario. Ma ho constatato di lì a poco che stavo leggendo un caldo «manifesto degli Eguali», un pamphlet etico-politico contro l’ideologia del mercato come supremo regolatore dell’economia moderna e, incidentalmente, contro la «spietatezza» del sistema sociale americano. Se cadesse nelle mani dei no-global potrebbe addirittura diventare, con qualche semplificazione stilistica, il «libretto rosso» del movimento e la lettura obbligata dei militanti. La sua pubblicazione oggi è un segno dei tempi, l’indice di un cambiamento degli umori dell’opinione pubblica di fronte a quella che è stata per più di trent’anni la verità economica delle economie mature e dei Paesi in via di sviluppo. Prima di tornare al libro di Franco Gallo proverò a individuare alcune tappe di questa parabola.
Chiamati alle urne da un referendum all’inizio dello scorso marzo, i cittadini svizzeri hanno deciso che l’ammontare dei premi attribuiti ogni anno ai dirigenti degli istituti bancari della Confederazione venga deciso dagli azionisti anziché dai consigli d’amministrazione. Il Parlamento di Strasburgo e la commissione di Bruxelles si stanno muovendo nella stessa direzione e l’Autorità bancaria europea, supremo regolatore delle attività finanziarie all’interno dell’Ue, ha precisato negli scorsi giorni che il limite dei bonus colpirà chiunque abbia un salario annuale superiore ai 500 mila euro. A conti fatti la norma concerne qualche migliaio di persone e sembrerà a molti addirittura insufficiente. Ma nella City di Londra ha suscitato reazioni opposte. Gli inglesi sono contrari al bonus cap (il tetto delle gratifiche) e temono che una tale limitazione avrà l’effetto di favorire l’esodo dei grandi cervelli finanziari verso Wall Street e le grandi banche asiatiche. La City è la maggiore industria del Regno Unito, guadagna grazie alla competitività dei suoi servizi e non intende rinunciare, in nome di politiche moralizzatrici, al primato conquistato dopo la rivoluzione informatica degli anni Ottanta.
Questa è soltanto una delle molte battaglie che si sono combattute negli ultimi tempi tra socialità e mercato. Negli Stati Uniti la riforma sanitaria di Barack Obama, fondata sul principiomutualistico e sull’assicurazione obbligatoria, si è scontrata con le resistenze dei repubblicani e ha perduto, prima di essere approvata, alcune delle sue caratteristiche originarie. Più recentemente, quando il Congresso e la Casa Bianca hanno dovuto accordarsi sul modo in cui ridurre l’enorme disavanzo americano, lo scontro è stato ideologico: da un lato Obama, deciso a tassare i ricchi per aiutare i poveri, dall’altro la destra repubblicana, convinta che il miglior modo per liberare gli «spiriti animali» sia quello di ridurre drasticamente, insieme all’onere fiscale, gli interventi dello Stato nella società e negli affari.
In Europa la situazione è diversa. La politica deregolatrice di Margaret Thatcher, primo ministro britannico dal 1979, ha preceduto quella di Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal 1980, ma è stata adottata al di qua della Manica con qualche riserva e parecchi aggiustamenti. Anche nel continente, tuttavia, il neoliberismo del Washington consensus (la formula adottata nel 1989 per definire la ricetta prescritta alla politica economica dei Paesi in crisi o emergenti) è diventato un credo economico, l’ideologia dominante della fine del secolo. È accaduto per una combinazione di ragioni concorrenti. La gestione dello Stato sociale era diventata particolarmente costosa e i risultati non sempre brillanti. Il rapido declino dell’Urss, fra il 1989 e il 1991, aveva decretato la morte dell’economia di comando, vale a dire organizzata e programmata dallo Stato. Il successo delle tigri asiatiche e del nuovo capitalismo cinese, dopo le grandi riforme di Deng Xiaoping, aveva sbigottito il mondo e creato un gruppo consistente di potenziali imitatori anche fra i Paesi appena usciti dal comunismo. Furono riletti i teorici della moneta e del mercato da Milton Friedman a Friedrich von Hayek. Furono riscoperti i lavori della Mont Pelerin Society, un’associazione liberale fondata nel 1947 da Raymond Aron, Luigi Einaudi, Friedman, Hayek, Bertrand de Jouvenel, Bruno Leoni, Walter Lippman, Ludwig von Mises, Karl Popper. Era un Olimpo di filosofi, sociologi ed economisti che sarebbero stati da quel momento lo zoccolo intellettuale e ideologico di un’auspicata rivoluzione liberale e liberista.
Come in tutte le religioni ideologiche, anche in quella del neoliberismo il nuovo credo fu declamato e professato con parecchie varianti da un Paese all’altro e spesso con una buona dose di ipocrisia. Ma quasi tutti i governi evitarono di contraddirlo apertamente e alcuni riformatori se ne servirono per rinnovare e aggiornare le strutture economiche e sociali degli Stati previdenziali e assistenziali che erano stati creati nel corso del Novecento, prima dai regimi autoritari e totalitari, poi dalle democrazie del secondo dopoguerra. Quelli che ebbero maggiore successo furono un socialdemocratico e un laburista: Gerhard Schröder in Germania e Tony Blair in Gran Bretagna. Il primo convinse i sindacati che soltanto una maggiore flessibilità del mercato del lavoro avrebbe convinto gli imprenditori tedeschi a non emigrare con le loro aziende verso Paesi dove la mano d’opera era più docile e meno costosa. Il secondo conservò le riforme di Margaret Thatcher, ma riuscì a fare passare per «terza via» quella che in altri tempi sarebbe stata definita una politica schiettamente conservatrice. Leader di altri Paesi recitarono il credo liberale ad alta voce, come Silvio Berlusconi, ma governarono senza troppo infastidire le numerose corporazioni italiane che si oppongono a qualsiasi riforma capace di turbare il placido sonno dei loro interessi. In Russia e in altri Paesi del socialismo reale le liberalizzazioni e le privatizzazioni hanno prodotto un capitalismo criminale. Complessivamente ogni Paese, anche quando si proclamava liberale, esitava prima di cedere interamente al mercato tutto ciò che sino a quel momento era nelle mani dello Stato.
In un particolare settore tuttavia, quello finanziario, la deregolamentazione fu quasi pienamente realizzata. La libera circolazione dei capitali è stata considerata il necessario complemento della globalizzazione e indispensabile anche per Paesi in cui lo Stato continuava a controllare una parte importante della economia nazionale. Il risultato è stato un considerevole aumento del potere finanziario, soprattutto negli Stati Uniti, dove persino un presidente democratico, Bill Clinton, ha accettato di smantellare alcune delle norme con cui il New Deal di Roosevelt aveva regolamentato il sistema bancario dopo la grande crisi del 1929. Wall Street e la City sono diventati in tal modo un potere extraterritoriale, perfettamente in grado di scrivere e imporre le proprie regole, di confezionare i pacchetti finanziari più conformi ai loro interessi, di inondare il mondo con una moneta virtuale chiamata «derivati».
Questo sistema è al tempo stesso la causa e la vittima della crisi che si è abbattuta su Wall Street nel 2007 e ha raggiunto l’Europa nel 2008. Sono state colpite in primo luogo le banche, ma le vittime erano troppo grosse per essere abbandonate alla loro sorte. Sono state curate e salvate con il denaro dei contribuenti, continuano a godere di grandi poteri, soprattutto negli Stati Uniti, e difendono l’ideologia che giustifica il loro modus operandi. Ma la crisi ha avuto l’effetto d’incrinare l’autorità del Washington consensus. Le critiche, prima del 2007, venivano soprattutto dai movimenti contrari alla globalizzazione, nati alla conferenza del Wto di Seattle nel 1999, e dai nuovi caudillos dell’America Latina, capeggiati da Hugo Chávez ed Evo Morales. Da allora è più facile parlare criticamente di «mercatismo» (una espressione coniata da Giulio Tremonti), auspicare ricette keynesiane come negli articoli sul «New York Times» di Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2008, esortare i giovani a indignarsi occupando Wall Street e il sagrato londinese di San Paolo. E ora, dopo i pamphlet di Stéphane Hessel, ecco un piccolo libro in cui si disegnano le grandi linee di una rivoluzione tributaria.
Franco Gallo muove da una osservazione incontestabile. Una delle principali caratteristiche degli ultimi trent’anni è stata la forbice che si è progressivamente allargata fra le tasse sul lavoro e quelle sugli affari. Mentre le prime salivano, le seconde obbedivano alle leggi della concorrenza e scendevano. Il risultato è un assurdo e pericoloso divario, considerevolmente aggravato dalla crisi, fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Il nodo, secondo Gallo, va tagliato con criteri ispirati alla solidarietà, alla sussidiarietà, al bene comune. Se ho ben capito, occorre smetterla di considerare la proprietà privata come «un attributo necessario e indissolubile della persona» e di pensare che un cittadino sia tassabile soltanto se ha un patrimonio o un reddito da sottoporre a prelievo. «In un mondo disuguale quale il nostro — continua Gallo — il tributo è soprattutto lo strumento di giustizia distributiva che uno Stato non meramente amministrativo ha a disposizione per bilanciare i diritti proprietari con quelli sociali e, quindi, per correggere, nel rispetto del principio di capacità contributiva (…), le distorsioni e le imperfezioni del mercato a favore delle libertà individuali e collettive». Il concetto è ancora più chiaro là dove Gallo scrive che «almeno nel campo fiscale è dunque il “pubblico” che deve prevalere sul “privato”». L’autore non crede, come i liberisti e i neoliberisti, che la tassazione debba «riguardare esclusivamente la ricchezza materiale». Occorre tassare con «un’ottica egualitaria e teleologica», vale dire diretta a produrre eguaglianza e altri meritevoli effetti sociali. Il metodo deve essere quello progressivo definito dalla Costituzione, ma i tributi possono colpire anche l’uso di «beni capitali» che non producono reddito, ma soddisfazione, benessere, qualità della vita.
La grande assente nella teoria di Gallo è la crescita. L’autore non crede evidentemente che fra i principali obiettivi di un sistema tributario vi sia anche quello di garantire, insieme all’equità, la produzione di ricchezza. Dalla lettura del suo saggio emerge anzi, implicitamente, la convinzione che all’origine della ricchezza vi sia soprattutto fame di denaro e di potere. Non è vero. Quanto maggiore è la crescita della ricchezza, tanto più grande è la somma che gli Stati bene amministrati possono mettere al servizio della società. Non basta. La ricchezza è anche il risultato di una grande passione, il segno materiale di una vita coronata dal successo, il premio dovuto alla capacità d’intraprendere e rischiare. Il sistema sociale americano può essere, come sostiene Gallo, spietato, ma l’uso sociale della ricchezza è una delle pagine più belle della storia americana. Una società degli Eguali sarebbe più grigia e soprattutto, come quelle dei Paesi del socialismo reale, meno libera.

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