L'argomento toccato da Piero Ostellino prima, sul Foglio, e poi oggi da Facci su Libero, era stato ampiamente e diffusamente trattato da Piero Sansonetti, nel suo bel libricino "La Sinistra è di Destra". Il patto scellerato tra giornali e magistratura all'epoca di mani pulite.
Sansonetti è testimone diretto, anzi, potremmo dire, complice, al tempo, di questa incestuosa alleanza tra libera (?) informazione e potere giudiziario. Ne parlammo su questo link http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/07/la-santa-alleanza-tra-giornali-e-giudici.html
I direttori coinvolti, Paolo Mieli, Scalfari e Mauro (che allora dirigeva La Stampa, per poi passare a Repubblica al posto del fondatore, in una coesistenza che ha momenti difficili, specie ultimamente), non hanno mai ammesso e nemmeno smentito.
Come detto Sansonetti era caporedattore dell'Unità (il quarto giornale coinvolto, con direttore Walter Veltroni ), e fa nomi e cognomi. Antonio Polito, che era il caporedattore di Repubblica, conferma.
"Oggi non lo rifarei". dice. Gli credo.
Ma resta che sia stato fatto. E francamente, che questa collaborazione sia cessata, anche se magari non più condotta in modo così sistematico, diretto (vergognoso ? la parola è inflazionato, la lascio agli esperti della materia...sono talmente tanti...), non lo penso.
La storia del patto indecente tra giornali e magistrati
Ecco perchè i giudici di Mani pulite si accanirono su Gardini e ignorarono De Benedetti
Beh, è interessante che anche un signore come Piero Ostellino - un ex direttore del Corriere della Sera, insomma non il primo scemo che passa (...)
(...) - abbia messo nero su bianco quello che definisce «un pactum sceleris fra il mondo dell’informazione e la parte della magistratura interessata a sovvertire gli equilibri politici esistenti». Ostellino l’ha scritto ieri su Il Foglio e partiva essenzialmente dal periodo di Mani pulite, quando il patto, cioè, secondo lui, sarebbe stato più o meno questo: «Voi - dissero i media a magistrati - tenete fuori da Mani pulite i nostri editori e noi vi aiutiamo a mettere le mani, e a far fuori, i loro concorrenti e ad attribuire tutta la responsabilità della corruzione alla politica». Partendo da questo, dice Ostellino arrivando così all’oggi, «si realizzò la trasformazione dell’Italia in un Paese nelle mani di una magistratura inquirente e di un sistema informativo che ignoravano l’Habeas corpus e istruivano processi e comminavano condanne sulle pagine dei giornali prima ancora che a farlo fossero i tribunali». Poi Ostellino parla di un patto dei direttori, ma per ora fermiamoci qui.
Sommersi e salvati - Anche perché, messa così, dar torto a Ostellino è davvero difficile. Nella prima parte di Mani pulite, la parzialità della magistratura nei confronti di certi grandi imprenditori e proprietari di mass media (Agnelli e Romiti, De Benedetti, ma attenzione, da principio anche Berlusconi) è riscontrabile non tanto da singoli atti giudiziari bensì dalla loro assenza. Sulla Fiat e sulla responsabilità dei vertici (Agnelli ma soprattutto Romiti) c’è tutta una letteratura probatoria pubblicata e stra-pubblicata: «Sono stati i magistrati di Mani Pulite a suggerire a Romiti di scrivere la lettera-articolo sul Corriere della Sera nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici»: questo, per esempio, lo si legge in «Storia segreta del capitalismo italiano» (Longanesi, prefazione di Ferruccio de Bortoli) tutti i cronisti dell’epoca restano convinti, a tutt’oggi, che fu questo a evitargli l’arresto: al pari di un discorso pro-giudici pronunciato da Agnelli il 17 aprile 1993 al Teatro la Fenice di Venezia. Dopodiché il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, disse che «i legali della Fiat hanno espresso disponibilità a collaborare». Nei fatti, successivamente, a Romiti fu concesso di presentarsi come semplice teste e di produrre un semplice memorialetto difensivo: ciò che non fu assolutamente permesso, ad esempio, a un Raul Gardini. Romiti, per contro, non fu arrestato neppure quando si appurerà che proprio in quei giorni aveva fatto bruciare delle carte: «A Vaduz (Liechtenstein, ndr) dovevano scegliere chi doveva attribuirsi i fatti... hanno deciso di distruggere tutto il resto del conto Sacisa, in modo da dare ai magistrati qualche informazione per farla contenta e chiudere il conto con la Procura... ritengo che tutto ciò sia stato coordinato e disposto da Romiti, in quanto fu lo stesso Romiti che dette ordine in tal senso». Questo l’avrebbe messo a verbale un manager Fiat, Antonio Mosconi. Tuttavia la maggior parte dei giornali scrisse della deposizione di Romiti definendola «una svolta»: da far impallidire il filo-berlusconismo del Tg4. La Fiat, in ogni caso, fu messa sotto torchio, sì: ma anni dopo, e dalla magistratura di Torino. Così come fu la magistratura di Roma, sfuggevolmente, a mandare Carlo De Benedetti agli arresti domiciliari in data 30 novembre 1993. A Milano, invece, De Benedetti - proprietario del gruppo Repubblica-Espresso - si presentò in Procura una domenica, il 16 maggio, con un memoriale lunghissimo nel quale sosteneva che la sua Olivetti era stata sistematicamente concussa dalle Poste italiane. «De Benedetti», scriverà Di Pietro in un suo memoriale difensivo, «si presentò spontaneamente». E tutti a crederci. Non manca una certa letteratura anche un Silvio Berlusconi lasciato miracolosamente stare dai magistrati di Milano almeno fino alla fine del 1993 - quando, ricordiamo, i suoi telegiornali sostenevano Mani pulite a spada tratta - il che è stato ammesso e documentato anche dai suoi più feroci detrattori di oggi. Ma non è certo a Berlusconi che Ostellino si riferiva nel suo articolo.
Poi c’è il discorso dei direttori di giornale e dei giornali, cioè, che appartenevano ai succitati imprenditori. Ai tempi, nel 1992, si mormorava che i direttori si telefonassero per concordare spazi e titoli comuni: un pool di vertice, in pratica. Si stupirono in molti, diversi anni dopo, quando Piero Sansonetti, condirettore de l’Unità nel 1992-1993, raccontò che era tutto vero: «Nel biennio 1992-1993 nacque un’alleanza di ferro tra quattro giornali italiani: il Corriere, la Stampa, l’Unità e Repubblica. Il direttore de l’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito.
Titoli concordati - Tra i quattro giornali si stabilì un vero e proprio patto di consultazione che li rendeva fortissimi: ci si sentiva due o tre volte al giorno, si concordavano le campagne, le notizie, i titoli. Il punto di riferimento di tutti era Paolo Mieli». Paolo Mieli ed Ezio Mauro non hanno confermato, ma Antonio Polito sì: «Le cose funzionavano pressoché come dice Sansonetti… il governo perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano subito, appena ricevuto l’avviso di garanzia, anche per via delle nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme… Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».
In effetti stiamo parlando di roba di vent’anni fa. Che cos’è cambiato, da allora? Molte cose, compreso un diluvio di intercettazioni che ai tempi non c’era, e che oggi, troppo spesso, si accompagna a procedimenti che poi non reggono il vaglio dei processi. Quelli dei tribunali, almeno: i processi imbastiti sui giornali funzionano ora come allora.
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