sabato 24 agosto 2013

L'ANALISI DI MICHELE SALVATI E GLI ITALIANI CHE DEVONO ACCETTARE DI NON ESSERE RICCHI


Che Michele Salvati, commentatore spesso presente sulle pagine del Corriere, fosse uomo (intelligente) di sinistra, era facile capirlo leggendolo. Non sapevo che fosse stato senatore del PDS ai tempi dell'esecutivo Prodi del 1996.
Ho trovato assolutamente interessante la disamina della situazione Italia- Europa, fatta da un uomo che guardò, come tanti, con grande entusiasmo alla nascita della moneta unica,passo fondamentale per gli Stai Uniti d'Europa (così si credeva). Oggi, con onestà intellettuale, nel ricordare che alcuni degli effetti positivi che si aspettava furono poi realizzati, ammette pure che la luna di miele è durata poco e oggi ci sono delle evidenti negatività, che vanno affrontate e superate. In realtà sia l'Europa intesa come cabina di regia, con capisaldi Bruxelles Francoforte (e Berlino), unitaria che le singole nazioni, devono correggere la rotta. 
La prima mollando sulla rigidità austera, i secondi facendo le riforme strutturali necessarie. L'Europa controllata dai paesi più virtuosi non si fida dei secondi, convinta che qualunque cedimento sul fronte della spesa e del debito spingerebbe i Paesi in difficoltà ad abbandonare precipitosamente la "retta via" del risanamento, per far cessare i sacrifici - e la conseguente impopolarità -  che la prima comporta. 
In concreto, è un po' il concetto che i Professori Alesina e Giavazzi hanno spiegato più volte. Per spingere l'Europa a fidarsi, l'Italia dovrebbe presentare un serio programma di CRESCITA, per e con il quale uscire dalla recessione e poter quindi procedere coi tempi medio lunghi occorrenti alle riforme da farsi. Questo programma ha bisogno di una sensibile riduzione delle tasse SUBITO, e quindi un  allentamento del fiscal compact per consentire  che il minor gettito - derivante dal significativo abbattimento della tasse, specie sulle imprese, sia sostenibile con un certo maggior debito, che sarebbe riassorbito grazie al graduale -  ma analiticamente prospettato - taglio della spesa e aumento delle entrate legato non alla tassazione ma allo sviluppo (meno disoccupazione e più reddito = più gettito di lavoratori e imprese). 
Insomma io, paese debole, faccio i compiti, ma tu. Europa, dammi una mano a farli.
Una cosa così.
Un'affermazione mi ha colpito, specie perché fatta da un'ex del PDS.
Gli italiani si devono convincere che non sono i ricchi che credevano. Che quella stagione fu drogata dal denaro facile, assicurato dal debito. Quel tempo è finito.
E non tornerà. Non essere ricchi non vuol dire il contrario. 
Io e la maggior parte dei miei coetanei abbiamo fatto una vita più dispendiosa dei nostri genitori e meno di quella dei nostri figli.
Ecco, l'illusione che questo miglioramento potesse far parte dell'ordine naturale delle cose, deve cessare.
Buona Lettura

  "L'Europa lotta su due fronti" 

Ero deputato del Pds-Ulivo quando, nel 1997, Romano Prodi riuscì a includere l'Italia nel primo gruppo di Paesi partecipanti all'euro. A quel tempo ero convinto che fosse la cosa giusta da fare: le pressioni inflazionistiche sarebbero state definitivamente debellate, i tassi d'interesse sarebbero crollati, si sarebbe raggiunto un notevole surplus primario e una progressiva riduzione del debito pubblico. E soprattutto speravo che la disciplina esterna avrebbe contribuito a una politica economica più responsabile. Avevo però trascurato due cose. La prima questione è che le grandi differenze di produttività, competitività, efficienza, capacità di governo dei diversi Stati avrebbero reso assai faticoso il funzionamento del sistema, che per definizione esclude una possibilità di svalutazione. Secondariamente, mi ero illuso che le condizioni internazionali eccezionalmente favorevoli durassero a lungo. Quando la crisi finanziaria americana del 2007-2008 colpì con violenza e si estese all'Europa, la fragilità dell'impianto di Maastricht divenne evidente: le banche e i debiti sovrani dei Paesi più deboli finirono sotto attacco e l'influenza congiunta di una crescita debole o negativa e di crescenti disavanzi spazzò via ciò che era rimasto dell'avanzo primario.  
L'impossibilità di svalutare, l'assenza di una domanda compensativa da parte dei Paesi più forti, le regole del fiscal compact crearono le condizioni di asfissia nelle quali i Paesi più deboli malamente sopravvivono oggi.
Se questa è la situazione, quali sono i compiti da affrontare per un governo dell'Eurozona meno squilibrato? Ovviamente i compiti dei singoli Paesi sono diversi e di seguito mi riferirò soprattutto a quelli dei Paesi più deboli, perché sono convinto che gran parte del lavoro spetti ad essi: non c'è aiuto esterno che possa compensare la scarsa crescita della produttività, l'assenza di innovazione, l'inefficienza delle istituzioni pubbliche. Certo, in una situazione recessiva possono essere necessarie condizioni di domanda esterna favorevoli, credito abbondante, disavanzi pubblici, insomma, rimedi keynesiani. Ma nel medio e lungo periodo la ripresa di una crescita robusta è un problema di offerta, e dunque di riforme strutturali che rafforzino la competitività dell'economia e l'efficienza delle amministrazioni pubbliche. E, se così è, il compito sta soprattutto sulle spalle dei singoli Stati, perché non è competenza dell'Unione Europea intervenire direttamente nella grande varietà di campi legislativi e amministrativi in cui le riforme devono incidere. Dove invece le autorità europee avrebbero un compito essenziale è nel rimediare alla spirale recessiva che le regole del fiscal compact hanno prodotto. È vero che il problema di lungo periodo che affligge l'euro è quello della scarsa efficienza delle economie più deboli. Ma anche sforzandosi al massimo nel produrre riforme strutturali, anche comprimendo quanto è possibile i salari e gli altri redditi, non si esce facilmente da una situazione recessiva per i Paesi più deboli. Anzi, si rischia di aggravarla. Recessione e scarsa propensione alla crescita sono problemi che si presentano insieme, ma sono diversi, e richiedono strumenti diversi per essere affrontati. Il consenso dominante a Bruxelles, Francoforte e Berlino vuole che i Paesi poveri, oltre a rispettare alla lettera le regole del fiscal compact, si impegnino allo stremo in un programma di riforme strutturali. Una volta che le avranno completate, le loro economie torneranno a crescere… se nel frattempo l'euro sarà ancora in vita. Difficile dire a quali motivi sia dovuta questa infelice ricetta: se a cattiva economia (confusione tra politiche antirecessive e politiche di sviluppo), se a moralismo (i colpevoli devono espiare le proprie colpe), se all'intenzione di far esplodere l'euro e liberarsi dal fardello dei Paesi più deboli. Probabilmente a una miscela di tutti e tre i motivi. In questa sede non ho la possibilità di fare una rassegna dell'enorme letteratura che analizza le proposte avanzate per creare in tempi brevi una situazione meno recessiva a livello europeo. Ma mi preme intanto sottolineare due punti. Il primo è che oggi le riforme strutturali e un atteggiamento più aperto da parte delle autorità europee vanno necessariamente insieme. «Interpretare» estensivamente o rilassare alcune delle regole più «stupide» non è impossibile, se a Bruxelles e nelle cancellerie che contano ci si convince che un Paese sta facendo i suoi compiti a casa. Il secondo punto è che i negoziatori nazionali, se sono convinti che i loro Paesi appoggiano un serio programma di riforme strutturali, e sono sicuri che le modifiche richieste non danneggerebbero la tenuta dell'euro, non dovrebbero esitare a minacciare ciò che essi, in realtà, a differenza di alcune forze politiche dei Paesi ricchi, vogliono evitare, cioè una grave crisi del sistema monetario europeo. Ripeto. Dovrebbero picchiare i pugni sul tavolo solo se sono convinti che l'interpretazione delle regole da loro proposta rafforza e non danneggia l'euro; e se sono sicuri che il loro Paese li segue ed è realmente preparato ad accettare un programma serio di riforme in una situazione vicina all'asfissia. È vero che le riforme strutturali aprono una prospettiva di crescita non effimera: ma quanti elettori riconosceranno questa necessità e voteranno di conseguenza? Abbiamo visto, nelle ultime elezioni politiche, qual è stata la sorte di Mario Monti. Ed è altrettanto vero che le riforme strutturali dovrebbero avere un orizzonte temporale limitato, fino a quando sarà raggiunta la meta di un'economia più competitiva e di uno Stato più efficiente, e il Paese potrà tornare a correre con le proprie gambe. Ma quanto è breve il breve periodo? Le riforme possono esigere un tempo assai lungo prima che i loro effetti sperati si manifestino con evidenza… e gli elettori sono impazienti. E da ultimo è vero che, nel disegno di queste riforme, grande cura dovrebbe essere riposta nel salvaguardare le condizioni di vita di chi sta peggio, degli strati più poveri della popolazione. Ma anche se la fiducia nei politici fosse più forte di quanto è ora, è l'elettore mediano quello che determina il successo elettorale, ed esso è destinato a soffrire. Non sono un politico e non sono obbligato a dare un lieto fine alla mia storia, quando un esito negativo sembra assai più probabile. A livello europeo smontare i pregiudizi non è facile, per usare un eufemismo

A livello nazionale convincere gli italiani che sono assai più poveri di quanto sono stati abituati a credere da decenni di politiche basate sul debito, è un compito che chiaramente supera le capacità del nostro sistema politico. In questa situazione solo un leader carismatico weberiano potrebbe entusiasmare il Paese e fare accettare un ragionevole programma di riforma. Sfortunatamente ben di rado potenti leader carismatici sono anche leader «ragionevoli».

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