martedì 20 agosto 2013

PERCHE' I PROGRESSISTI IN EGITTO SI SCOPRONO AMICI DEI DITTATORI MILITARI


Trovo molto interessante e  più esaustiva di altre la sintesi che Roberto Toscano (altro ex ambasciatore con grandi doti di scrittore) fa su La Stampa della attuale, drammatica situazione di tutto il mondo arabo. La complessità e il numero delle questioni sono tali che c'è da invidiare chi, guidato dal tifo, prende le parti,  con grande  al bar o al ristorante , dell'una o dell'altra parte, mostrando una grande capacità di esemplificazione (i tifosi in genere hanno questa dote, favorita dalla "fede").
Personalmente, non mi fidai della primavera araba, piuttosto scettico che in quelle regioni l'istanza democratica, sopita per millenni, si fosse risvegliata prepotente e matura tutta insieme.  I fatti successivi, purtroppo, hanno dato ragione a quello scetticismo. L'Egitto è il caso forse più sintomatico. Al momento del voto, si è scoperto che la parte "simpatica", i "buoni", per noi occidentali, vale a dire i giovani, le donne, i laici, erano assolutamente minoranza (oltretutto incapace di concentrarsi in formazioni politiche unitarie), mentre i Fratelli Musulmani si rivelarono essere il gruppo più numeroso ed organizzato. Addirittura gli estremisti Salafiti presero più voti e più seggi delle disperse forze "progressiste". 
Ma la prova della assoluta immaturità democratica dell'Egitto (e di quella parte del mondo tutta) si è avuta questa estate. Morsi e il suo governo avevano già dimostrato una concezione di democrazia assai lontana dai modelli liberali dell'occidente, basati sull'equilibrio dei poteri, l' evitare il rischio della dittatura della maggioranza, che a colpi di leggi scardini le fondamenta costituzionali della nazione.
Le forze di opposizione si sono giustamente mobilitate contro questa resipiscenza autocratica di Morsi, ma poi è intervenuto l'esercito, legittimato dalle piazze , che invece di cercare di far rientrare nell'alveo pseudo democratico il fiume teocratico che se n'era discostato, ha proprio deposto il presidente eletto e il suo governo. Un golpe. Né più né meno di quelli franchista, greco, cileno, argentino,  per citare quelli giustamente condannati dalla storia (ma oggi si scopre che la colorazione degli stessi pesava ai fini di detta condanna). 
E adesso al Cairo c'è di nuovo la dittatura militare che sosteneva Mubarak, il cui posto è preso da un altro generale, Al Sisi. 
Già qualche giorno fa ospitammo l'intervista ad un inviato de Le Figaro, il decano di vicende orientali, il francese Giraud, che decretò l'incompatibilità tra islamismo e democrazia.
Facendo un veloce ma efficace  excursus storico, Roberto Toscano, arriva a conclusioni simili, affermando che per gli arabi la democrazia , nel senso "ateniese" del termine, forse un giorno arriverà pure, ma noi contemporanei non ci saremo per vederla.


Arabi vs arabi
la democrazia è un miraggio

Non è passato molto tempo da quando i popoli arabi, pur profondamente diversi fra loro per strutture di potere e assetti socio-economici, trovavano una loro identità comune in una sorta di definizione per contrapposizione. 

Da un lato si trattava della memoria storica, profondamente sentita a livello popolare, dell’umiliazione coloniale e neo-coloniale, e dall’altro dell’ostilità contro Israele, sentita come corpo estraneo la cui stessa esistenza era percepita come una perdurante sconfitta.  
 
Oggi le cose sono profondamente cambiate, e lo si è visto quando, nel 2011, le masse arabe scese in piazza contro i regimi dittatoriali in Egitto e Tunisia non bruciavano bandiere americane né davano voce al loro odio nei confronti del nemico sionista. Sembrò allora una promettente presa di coscienza del fatto che libertà politica e giustizia sociale potevano essere conseguite soltanto identificando il nemico principale: regimi la cui esistenza poteva solo in parte essere attribuita a forze esterne.  

Sarebbe tuttavia incauto rallegrarsi di questo segno di maturazione politica senza vedere quello che ha preso il suo posto nella coscienza collettiva dei popoli arabi. 

Si sta infatti rapidamente aggravando un fenomeno che minaccia di essere devastante per ogni prospettiva non solo di cambiamento in senso democratico, ma di una semplice convivenza civile. L’ostilità verso un nemico esterno, che bene o male era servita a dare una minima coesione a Stati estremamente fragili, viene sempre più sostituita da una radicale, e spesso feroce, contrapposizione interna, da una spaccatura settaria che minaccia di trasformare gli Stati in crisi in Stati falliti. 

Ovunque nel mondo la perdita di controllo prodotta dalla globalizzazione ha esasperato per reazione un’esigenza identitaria che mina la coesione delle comunità nazionali. Ma mentre in Europa il risultato è il rafforzarsi delle spinte centrifughe a livello territoriale (fino al separatismo), nel mondo arabo è la dimensione religiosa a definire tutta una serie di identità ostili e conflittuali. 

Si parte dalla contrapposizione religione/laicità, che spinge a divisioni politiche inconciliabili soprattutto perché – con un equivoco che non è solo semantico ma profondamente concettuale – nel mondo islamico «laico» è equivalente ad ateo. La maturazione di un modo più corretto di impostare la questione, con il rafforzamento (come faticosamente è diventato possibile nel mondo cristiano) della opzione di una religiosità laica, non è certo per domani, anche se non mancano gli intellettuali islamici che stanno cercando di spingere in questa direzione. Nel frattempo i laici vedono da un lato un islamismo violento, wahabita nell’ideologia e jihadista nella prassi, e dall’altro un islamismo moderato (come quello dei Fratelli Musulmani o del partito Akp in Turchia) che temono voglia perseguire, anche se con mezzi pacifici, la stessa finalità di un’islamizzazione della società imposta con la legge. Un timore che arriva a portare, come oggi in Egitto e ieri in Turchia, sedicenti democratici a schierarsi a favore di dittature militari anche profondamente repressive, ma laiche.  

La seconda contrapposizione si riferisce alla spaccatura fra musulmani ed appartenenti ad altre religioni. Il Medio Oriente è stato sempre caratterizzato da una pluralità di comunità religiose che, anche in regimi non pluralisti, avevano finora mantenuto spazi di «agibilità» e un’integrazione di fondo con le maggioranze musulmane. Pensiamo soprattutto alle antiche comunità cristiane d’Oriente. I dittatori laici (Saddam, Mubarak, Assad e lo stesso Gheddafi) avevano, agli occhi di queste comunità, il non secondario merito di non discriminare nei loro confronti. Certo, opprimevano tutti i cittadini, ma non in quanto appartenenti o no all’Islam. 
In tutti i Paesi in cui i dittatori laici sono stati sostituiti da governi di maggioranza islamica (Iraq, Egitto, Libia), i cristiani hanno cominciato a sentirsi minacciati dagli islamisti più radicali, ma spesso con la connivenza o la passività degli islamisti moderati, mentre in Siria la presenza nello schieramento anti-Assad di gruppi wahabiti ha comprensibilmente aumentato l’avversione delle minoranze non islamiche nei confronti di un’ipotesi di caduta del regime e il sospetto nei confronti di una «democrazia islamica». 

Ma la spaccatura più significativa, più generalizzata, più drammatica è quella fra sunniti e sciiti. Si tratta di uno scisma all’interno dell’Islam che ha radici antiche, visto che nacque per una disputa sulle modalità di successione al Profeta, e che nei secoli ha visto un alternarsi di periodi di quiescenza con periodi di feroce scontro non molto diversi da quelli che per secoli hanno caratterizzato il difficile rapporto fra cattolici e protestanti.  

I Paesi sunniti non hanno mai accettato che gli sciiti – tradizionalmente i dissidenti, i perdenti, i settari emarginati quando non perseguitati – acquistassero, con la rivoluzione iraniana del 1979, un riferimento sia ideale che materiale capace di renderli protagonisti, nonché pericolosi concorrenti dell’Islam maggioritario quando non agenti delle ambizioni dell’Iran. Questo era vero soprattutto nei primi anni dopo la rivoluzione, quando l’Iran non faceva mistero della propria intenzione di espandere la propria egemonia a tutto il mondo islamico. Un progetto ben presto rivelatosi poco realista, il che spiega una certa quiescenza della questione sunnita/sciita - una quiescenza che è durata fino alla caduta di Saddam, laico ma pur sempre sunnita. Quando gli americani hanno non solo imposto a Baghdad un nuovo sistema basato sulle elezioni e un governo maggioritario, ma hanno anche insistito per la strutturazione del sistema politico con riferimento alle tre comunità (sciiti, sunniti, curdi) diventava evidente che il governo iracheno sarebbe stato sciita.  

I Paesi sunniti tuttavia, e in primo luogo l’Arabia Saudita, non hanno mai accettato che a Baghdad ci fosse un governo sciita, per giunta amico degli iraniani.  

Il discorso sunnita sulla «Shia crescent» (la mezzaluna crescente sciita) agita lo spettro di un’espansione sciita che non sta nella realtà dei rapporti di forza, ma nasconde l’intenzione sunnita di rendere reversibile l’attuale status quo. Stiamo oggi assistendo a una vera e propria offensiva sunnita. 

Non solo per l’Iraq, che infatti vede oggi un drammatico aumento del terrorismo sunnita – contro un governo sciita, va aggiunto, sempre meno democratico e sempre più repressivo – ma anche in relazione alla questione siriana. Gli alawiti, setta religiosa cui appartiene Assad, sono un «sottoprodotto» dello sciismo (l’Oriente è ricco di religioni e di sette spesso sincretiste), ma certo il dittatore siriano non è un paladino dello sciismo, bensì un tipico esponente, come suo padre, dell’ideologia del partito Baath, un partito laico nazionalista (e, a ben vedere, di tipo fascistoide) creato negli Anni 40 da un cristiano, Michel Aflaq. 

Ma una delle ragioni del sostegno fornito dai Paesi sunniti (in primo luogo Arabia Saudita e Qatar) ai ribelli è il fatto che la Siria di Assad è l’anello di congiunzione fra Islam e Hezbollah, il movimento sciita più agguerrito, organizzato e politicamente abile, passato da movimento terrorista a partito politico senza mai abbandonare una significativa forza militare. In realtà, quindi, la Siria è anche, e forse soprattutto, terreno di scontro per la guerra civile sunnita-sciita, con Hezbollah che invia propri combattenti a sostenere Assad. E il pericolo è che lo scontro si estenda, come fanno temere recenti atti di terrorismo, all’interno del Libano, destabilizzando un Paese i cui fragili equilibri inter-comunitari sono garantiti, più che altro dallo spettro di un riaccendersi di una quindicennale guerra civile. 

Se si aggiungono le sorti incerte della democrazia in Tunisia – dove laici, islamici moderati e islamici radicali non hanno ancora trovato un minimo di consenso – e l’incapacità della Libia del dopo-Gheddafi di emanciparsi dalla prepotenza delle milizie armate, il quadro del mondo arabo non è certo incoraggiante.  

Lo scontro fra arabi dovrà trovare una propria decantazione, un assestamento oggi imprevedibile e che comunque sarà diverso in ciascun Paese. Ma certo la realizzazione della promessa di democrazia e libertà della Primavera Araba non è per domani. 

Forse è un miraggio, ma non nel senso di qualcosa di irreale bensì, come è in effetti il fenomeno del miraggio, il prodotto dell’illusione ottica che ci fa vedere vicino un oggetto del tutto reale, ma che è molto più lontano di quanto il nostro occhio creda di percepire.

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