giovedì 26 settembre 2013

BOTTA E RISPOSTA AL CIANURO TRA FASSINA E LA COPPIA ALESINA-GIAVAZZI

 
Ci mancava solo il riferimento ai poteri forti e poi lo j'accuse di Fassina alla nota coppia di pregiati economisti del Corriere (Alesina e Giavazzi) sarebbe stato completo. 
 Del resto, l'incipit della lettera (scritta, di getto parebbe, dall'animosità, a seguito dell'editoriale di ieri sul Corsera che trovate qui : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2013/09/litalia-che-vola-basso-terra-di.html ) dell'attuale viceministro dell'economia è bastevole, richiamandosi a Keynes, che non è l'economista di riferimento dei due bocconiano e docenti in università americane. 
Il discorso di Fassina è semplice. Non si possono tagliare 50 miliardi di tasse sul lavoro, per il semplice fatto che non ci possono essere tagli alla spesa per una somma uguale, ancorché da effettuare in 3 anni (ma sarebbe lo stesso se fossero 30, per Fassina). 
Il responsabile economico del PD (almeno questo era ai tempi di Bersani, adesso non so, visto che è passato a palazzo Chigi) tira fuori dei numeri che, se corretti, danno da pensare. In buona sostanza, i 250 (238 corregge lui) miliardi di spesa pubblica, lasciando intaccata quella destinata a Sanità, Previdenza e interessi sul debito, non possono essere sostanzialmente toccati perché comporterebbero, in quella misura, il licenziamento di 1.000.000 di dipendenti pubblici ( un sogno effettivamente irrealistico, lo ammetto, anche se che bello sarebbe !) e l'aumento vertiginoso di tariffe e servizi. Un salasso per ceti deboli e medi che ben poco sarebbe compensato dalla riduzione delle tasse sulla busta paga. 
Accipicchia...ma allora come si fa ? Che sciocchi che siete ! Ma recuperando i soldi dall'evasione fiscale !! Riportando la percentuale della stessa a livelli europei (quindi anche i virtuosi evadono, però di meno) , da 120 si potrebbe scendere a 70 et voilà eccoti i 50 miliardi rastrellati da Alesina Giavazzi giocando sulla pelle della gente.
E' così ? La risposta dei due al momento è generica, e confido che presto ne sia pubblicata una più puntuale. 
Allo stato, rammento che non solo i due bocconiani, ma anche Luca Ricolfi, un osservatore non della scuola di Chicago (cui sospetto Fassina collochi i due poco, da lui, stimati economisti)  ricorda che gli sprechi nella spesa pubblica ci sono eccome, e pesano tra i 70 e gli 80 miliardi  !! Altro che briciole sor Stefano ! E sono dati che provengono dalla Corte dei Conti...(che dovrebbe anche essere un po' in imbarazzo a promulgarli che non sono mica l'ISTAT o il Censis, loro esistono proprio perché questi sprechi NON ci siano ! ).
Ad ogni modo, una cosa è vera. Per tagliare 50 miliardi di spesa non è pensabile agire con il bisturi ma ci vorrebbero le asce. 
Quelle che il Fondo monetario internazionale, ma anche la BCE e Bruxelles, hanno preteso per la Grecia, ma anche per Irlanda e Portogallo. Con Spagna e Italia sono stati più attendisti...contendandosi del miglioramento dei saldi e peggio per noi se avveniva solo tramite le tasse. Secondo me sbaglia Fassina, e hanno ragione Alesina e Giavazzi, a pensare che una politica economica "suggerita" (ma arrivano anche ad imporla, come abbiamo ben visto) da queste istituzioni agirebbe sul piano agognato (da sempre e come sempre da quelli di sinistra radicale) del recupero delle tasse evase (eppure anche lui ha parlato di una "evasione di sopravvivenza"), e sarebbe sicuramente assai dolorosa.
E in quella direzione ci stiamo muovendo, che le ricette adottate finora sono meno che pannicelli caldi rispetto ai nodi veri.
Perchè il dramma qui è che è vero che abbiamo fatto numerosi sacrifici, ma il peggio noi non l'abbiamo visto (chiedere alle compagne cicale per credere...). 
Ecco comunque la disputa andata in onda sul Corriere di oggi (le parti evidenziate dell'intervento di Fassina non è che le condivido, ma le ritengo più rilevanti).

I tagli «impossibili», le spese eccessive

 
Caro direttore, la lucida analisi politica di Keynes («presto o tardi sono le idee non gli interessi costituiti a essere pericolosi, sia in bene che in male») riceve continue conferme dai martellanti editoriali di Alesina e Giavazzi. Dopo le definitive confutazioni della loro fantasiosa teoria dell'austerità espansiva, cambiano schema di gioco. Ammettono implicitamente la rilevanza della domanda aggregata e propongono di ricontrattare il limite di deficit per procedere subito a 50 miliardi all'anno di minori tasse e, in un triennio, all'equivalente taglio di spese. È possibile tagliare di 50 miliardi all'anno la spesa pubblica italiana? In 3 anni è impossibile. In un arco temporale più lungo? Certo che è possibile, ma bisognerebbe avere il coraggio intellettuale e politico di smetterla con la retorica degli «sprechi» e dire la verità: tagliare 50 miliardi all'anno vuol dire intervenire brutalmente sulle condizioni di vita delle persone con minori opportunità e, soprattutto, delle classi medie.
Vediamo perché. Alesina e Giavazzi propongono di intervenire sulla spesa «al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali circa 250 miliardi all'anno». Per il 2014, sono in realtà 238 miliardi senza la spesa in conto capitale. Perché non rivelano di che si tratta? Sono, per il 2014, 162 miliardi per il personale; 76 per acquisto di beni e servizi. Nella previsione, la spesa per il personale continua a escludere aumenti retributivi da rinnovi contrattuali e da recupero di inflazione. Assume, invece, il blocco quasi completo del turn-over lungo la traiettoria dell'ultimo decennio (circa 300.000 unità in meno). Cinquanta miliardi all'anno equivalgono a licenziare circa un milione di lavoratori e lavoratrici pubbliche, da abbandonare a loro stessi senza ammortizzatori sociali e senza pensione, altrimenti il risparmio si riduce di 2/3. Il capitolo «acquisti di beni e servizi» è stato ridotto da tagli lineari negli ultimi anni. Vi sono ancora ampi spazi di intervento. Ma è insensato puntare a dimezzarlo. E i 10 miliardi di euro del «Rapporto Giavazzi» sulle agevolazioni alle imprese? Sono così composti: quasi 4 sono per Fs, Poste e altre società di servizi pubblici; circa 6 sono contributi agli investimenti e all'occupazione. Alle imprese private vanno circa 3 miliardi (inclusi i 300 milioni per le scuole private). Un risparmio significativo implica aumentare brutalmente biglietti e tariffe e distribuire qualche decina di euro a impresa per il cuneo fiscale.
Allora, non si può fare nulla sulla spesa? Innanzitutto, va segnalata «la diminuzione per il terzo anno consecutivo della spesa pubblica primaria in termini nominali, un risultato mai registrato dal 1950 al 2009» (Giuseppe Pisauro, «Rapporto di finanza pubblica», 2013). Si deve fare di più. Ma non si deve tagliare. Si deve riqualificare e riallocare la spesa attraverso piani di riorganizzazione industriale a ogni livello di amministrazione, preceduti o accompagnati da una revisione del Titolo V della Costituzione. Obiettivi ambiziosi da perseguire nella consapevolezza che alcuni programmi di spesa dovrebbero trovare sinergie nell'Unione europea, mentre altri devono riceve maggiori risorse, come la scuola pubblica, oramai allo stremo.
Come arrivare alla necessaria riduzione delle tasse? La via strutturale passa per una «Maastricht dell'evasione fiscale»: l'allineamento alla media europea, ossia una riduzione dal 17-18% al 8-9% del Pil, vale 50 miliardi. La via congiunturale riguarda i margini di flessibilità sul deficit invocati da Alesina e Giavazzi: dovrebbero prendere la forma di golden rule per alimentare investimenti produttivi, in particolare nel settore edile a massimo moltiplicatore interno. L'iniziativa va coordinata nell'Eurozona per abbandonare la rotta fallimentare della svalutazione interna e orientarsi verso lo sviluppo sostenibile e il lavoro: dall'unione bancaria all'innalzamento del tasso di inflazione programmato, dagli euro-project bond all'aumento della domanda nei Paesi in avanzo commerciale, all'introduzione di standard sociali e ambientali per movimenti di capitali e di merci e servizi.
Sono obiettivi eterodossi rispetto al mainstream, non più egemone ma ancora dominante. Sono discussi dal Fondo monetario internazionale, dalla cultura liberale pragmatica, inseguiti negli Stati Uniti. È un dibattito proibito dai miopi conservatori europei e parte delle tecnostrutture al seguito. In particolare in Italia, dove i soggetti più forti continuano a interpretare i loro legittimi interessi secondo un paradigma insostenibile. Così, l'iceberg dei populismi regressivi di fronte al «Titanic Europa» è inevitabile.

LA REPLICA  



È singolare che il viceministro dell'Economia esprima dei pareri che sono contraddetti dalle ricerche del Fondo monetario internazionale, un'istituzione che potrebbe presto essere chiamata a vigilare sui nostri conti pubblici (si veda ad esempio Guajardo et al., Expansionary Austerity: New International Evidence, IMF Working Paper No. 11/158). Come mostrano questi lavori (vedi anche Alesina, Favero e Giavazzi, NBER working paper no 18336, 2012) le correzioni dei conti pubblici sono recessive se attuate alzando le tasse. Invece, correzioni attuate tagliando la spesa (tanto più quanto più i tagli sono irreversibili) hanno effetti trascurabili sulla crescita; in alcuni Paesi sono addirittura stati accompagnati da un'accelerazione della crescita. Quanto ai risparmi possibili tagliando i contributi pubblici alle imprese, se non crede ai dati del «Rapporto Giavazzi», chieda alla Ragioneria generale dello Stato: Rapporto sulla spesa delle Amministrazioni centrali dello Stato - La spesa per trasferimenti e incentivi alle imprese, 2012. Certo che finché membri autorevoli del governo pensano che «non si deve tagliare. Si deve riqualificare e riallocare la spesa attraverso piani di riorganizzazione industriale», né il debito pubblico, né le tasse sul lavoro potranno mai essere ridotti e questo povero Paese va dritto verso un ripudio del debito, accompagnato dal fallimento delle nostre banche e da una recessione che ci farebbe rimpiangere quella che stiamo vivendo.

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