Ieri sera stavo raccontando all'amato bene la notizia del medico di San Giovanni Rotondo che ha adottato la sua piccola e sfortunatissima paziente : una bambina di sei anni condannata dalla sindrome di Bruck. I genitori ad un certo punto pare non abbiano più retto la terribile disgrazia che li aveva colpiti, loro e la piccola creatura, e hanno gettato la spugna, cessando di seguirla, anche solo andando in ospedale. La famiglia di Angela (nome inventato) è diventata a quel punto l'ospedale, e il papà il primario che, di fronte al problema posto dall'assistente sociale, su chi si prendesse la responsabilità della piccola, si è fatto avanti. Il Tribunale dei Minori ha accolto la domanda di adozione. "Perché non scrivi anche di queste cose" mi ha detto il disastrino che attraversa con bassa, ma significativa, frequenza la mia vita, e io le ho risposto che il camerlengo non era un giornale che può pubblicare tutte le notizie.
"MA questa è una cosa bella" ha insistito "mica si possono solo riportare quelle brutte".
Ha ragione. Ed eccola qui, accompagnata dal commento di Gramellini, che a me non sta simpatico, ma sa scrivere e queste storie sicuramente le sa raccontare meglio di me.
“Rianimazione”
Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene? Provo goffamente a mettermi nei panni del dottor Melchionda, primario di rianimazione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, quello voluto da padre Pio.Anni fa arriva in reparto D., bimba di sette mesi con problemi respiratori. Gli esami rivelano una malattia rarissima, la sindrome di Bruck, che deforma gli arti e intacca tutti i movimenti tranne quelli degli occhi. I genitori sono anime difficili con vite difficili. Sbandate. Un po’ alla volta le visite al capezzale della figlia si diradano fino a scomparire. Se qualcuno pensa di giudicarli, sappia che il dottor Melchionda non lo ha fatto mai. Il reparto si trasforma in una task force dell’affetto: D. non dovrà mai sentirsi sola. Intorno al suo letto, una siepe di cannule e tubi, ci saranno sempre un medico o un infermiere per farle una smorfia o un sorriso, ricevendone in cambio una strizzata d’occhi. Quando l’assistente sociale domanda chi assumerà la patria potestà della bambina, il primario non ha esitazioni: io. A casa ha moglie e figli, ma quest’altra figlia appartiene alla sua famiglia d’elezione, l’ospedale. Qui il dottore è il papà, suor Noemi la mamma e il personale medico e paramedico la tribù variopinta degli zii. Nel frattempo D. ha compiuto sei anni, è diventata la mascotte del reparto e non passa giorno senza che la sua famiglia in camice bianco non le dedichi un gioco, un pensiero, una porzione di tempo libero. Ieri il tribunale di Bari ha concesso l’affido al dottore, che adesso punta dritto all’adozione.
Ma quanto coraggio ci vuole per fare il bene? Tantissimo, e non essere da soli a farlo aiuta. Tantissimo.
Nessun commento:
Posta un commento