Uno degli episodi più eclatanti di ingiusta custodia cautelare era, con tutta evidenza, quello toccato a SIlvio Scaglia ( e il Camerlengo lo denunciò da subito : http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2011/07/mani-pulite-due-la-vendetta.html ), tanto da muovere a compassione anche qualche deputato PD che propose, ai tempi, ina interrogazione parlamentare ! Era proprio il caso paradgmatico ideale per attestare come Procura e GIP fossero ( e siano), in materia, fuori controllo.
Sia il reato (frode fiscale, quindi non tra quelli di alta pericolosità sociale), sia la personalità dell'indagato (fino ad allora specchiato cittadino, stimato Manager), sia l'improbabilità degli elementi richiesti per l'adozione del carcere preventivo, facevano e fanno di Scaglia l'esempio del perché bisogna mettere mano, al più presto, in questa materia, non più da lasciare in mano al "buon senso" dei giudici, visto che questo NON c'è.
Nel leggere la notizia della sua assoluzione, che davo per scontata (la procura aveva chiesto la sua condanna a 7 anni...non arretrano MAI questi signori, nemmeno di fronte all'evidenza), ho visto con piacere che la maggior parte dei commenti erano di riprovazione nei confronti di chi manda in prigione qualcuno che si rivela poi innocente. Bene, non è cosa scontata, nemmeno sul Corsera. Però immancabile è saltato su il difensore delle toghe che ha scritto, testualmente :
"Se ci sono gravi indizi e permangono le esigenze cautelari, certo che possono durare 7 anni, anzi DEVONO durare. Tu sopporteresti il fatto di vedere l'assassino di tua figlia a piede libero finchè non finisce il processo? Credo di no."
La risposta è stata molto veloce :
"Ho letto un commento dove , difendendo la custodia cautelare, si sostiene che questa è giusta, di fronte a gravi indizi e che nessuno vorrebbe vedere l'assassino del proprio figlio libero in attesa della condanna. Mi sembra esemplare della deriva incivile che stiamo attraversando, e il ricorso all'esempio di un reato, l'omicidio, ben diverso da quello di frode fiscale, mi sembra palesi la mala fede di chi ragiona in questo modo. Dunque, intanto stabiliamo che per LEGGE i gravi indizi sono la condizione NECESSARIA MA NON SUFFICIENTE del provvedimento di custodia cautelare. Poi ve ne sono altre, come il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove, pericoli che devono essere CONCRETI, non meramente astratti che se no evidentemente lì si può invocare sempre (come il malcostume delle procure fa). Inoltre, Cassazione dixit, la misura del carcere è l'ULTIMA, e chi la chiede (PM) e chi la concede (GIP) devono MOTIVARE adeguatamente perché misure meno afflittive non possano rispondere all'esigenza preventiva. Non lo fanno sostanzialmente MAI. Nel caso di specie Scaglia NON era più AD di Fastweb, quindi NON poteva reiterare il reato e non aveva più accesso a registri e documenti per inquinare le prove. Quanto al prericolo di fuga, si trovava FUORI ITALIA quando ha saputo di essere indagato ed è SUBITO rientrato per mettersi a disposizione dei magistrati. Come è atterrato lo hanno arrestato ! Quindi si è fatto 3 mesi di galera, 9 di domiciliari. Adesso è stato ASSOLTO per non aver commesso il fatto. Se chiedesse un risarcimento, lo otterrebbe. Magari quel lettore vorrebbe gentilmente contribuire lui all'esborso pubblico ? Che i magistrati non scuciono un euro. "
Ecco la notizia di cronaca sul Corriere.it
Un anno agli arresti. Ora Scaglia è assolto
Il papà di Fastweb: felice di aver lottato
(Ansa)
Assolto per non aver commesso il fatto, l’ex manager di Fastweb, Silvio
Scaglia, libera la sua soddisfazione dopo aver trascorso tre mesi a
Rebibbia e nove ai domiciliari: «Sono contento di aver combattuto questa
battaglia durissima. Era ben riposta la fiducia che avevo nella
giustizia», dice. Ora che le accuse mosse da Bruno Zito (il dirigente
Fastweb che lo accusava di aver deciso le operazioni commerciali
fraudolente) sono state archiviate, Scaglia dice che «è stata
durissima». Inchiesta Fastweb Telecom Sparkle: una provvista di fondi neri per circa due miliardi di euro, costituita grazie a una triangolazione di fatture societarie fra Italia e altri Paesi europei, attraverso le quali, sostanzialmente, veniva evasa l’Iva con un danno economico per lo Stato di oltre 300 milioni di euro. Ieri, dal 2003, è arrivata la sentenza per «la più grande frode mai attuata in Italia», secondo la definizione dei pm Giovanni Bombardieri e Francesca Passaniti che hanno ricostruito i caroselli finanziari tra le tre società telefoniche. Diciotto condanne e sette assoluzioni.
Quindici anni inflitti a Gennaro Mokbel, il faccendiere che apostrofava il senatore Nicola Di Girolamo come «schiavo mio». La provvista di denaro serviva anche a finanziare carriere politiche e Mokbel fu a lungo un «king maker», mentre l’ex senatore Pdl eletto con i voti degli italiani all’estero aveva patteggiato cinque anni nel 2011.
Ma Mokbel, padre egiziano, madre napoletana, cresciuto tra gli ambienti della destra eversiva, relazioni anche con esponenti della banda della Magliana, intermediario di affari con esponenti della ‘ndrangheta, era anche l’uomo al quale affidare la costituzione di società ad hoc destinate a emettere le famose fatture false. A lui è andata la condanna più dura, mentre sua moglie Giorgia Ricci ha avuto otto anni.
Altri undici al consulente Carlo Focarelli, che con Mokbel costituiva e gestiva le società fittizie, le cosiddette cartiere che avevano anche il compito di interfacciarsi con Telecom Italia Sparkle e Fastweb.
Sette anni invece all’ufficiale della Guardia di Finanza Luca Berriola che, per gli investigatori coordinati dall’allora procuratore della Dda Giancarlo Capaldo, agevolò il rientro dall’estero di un milione e mezzo di euro dell’organizzazione.
L’inchiesta parte nel 2002, da accertamenti della finanza su messaggi telefonici che promettevano premi in denaro. Da questo semplice traffico telefonico affiorano movimentazioni sospette di soldi. L’approfondimento dei finanzieri incrocia un’inchiesta dei carabinieri del Ros che, nel frattempo, ha messo sotto osservazione i rapporti finanziari tra un imprenditore campano e una società off-shore. Le due indagini convergono, l’inchiesta approda alla Dda di Roma e subito decolla.
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