IN 500 colpevoli di aver ucciso una unica persona, un poliziotto. Come hanno fatto non è dato sapere, però devono averlo fatto visto che sono stati condannati a morte. Succede nell'Egitto post primavera araba, dove il generale Al Sisi è prontissimo a prendere il posto di Mubarak.
Chissà cosa ne pensano le decine di migliaia di giovani e donne che nel gennaio del 2011 riempirono per più giorni piazza Tharir e fecero cadere il regime dell'altro generale, divenuto il nuovo Faraone d'Egitto per il potere che aveva concentrato nelle sue mani per ben 30 anni. Volevano la democrazia, i diritti civili, le cose che su internet vedevano normali in Occidente. Si sono ritrovati con le elezioni vinte dai Fratelli Musulmani e Morsi Presidente. Mica bella la democrazia così... E infatti anche questo governo è stato abbattuto, stavolta però dai militari, che con i Fratelli hanno un conto aperto da sempre.
Il giro di lancette sta per terminare il suo corso. Tra un po', con le nuove elezioni, i Fratelli Musulmani di nuovo fuori legge, le condanne a morte a centinaia alla volta del tipo descritto, tutto tornerà com'era tre anni fa : un generale al posto di un altro generale, l'esercito vero padrone dell'Egitto, i laici che tra fondamentalismo e autocrazia militare scelgono quest'ultima come male minore.
Una vera e propria restaurazione.
I cantori della primavera dei gelsomini che dicono ?
Oltre 500 condanne a morte
contro i Fratelli musulmani
Comminate assieme per l’uccisione di un poliziotto
Una sentenza mai vista prima in Egitto, e non solo per il numero record di pene capitali: 529 sostenitori e aderenti dei Fratelli musulmani ieri sono stati condannati a morte dopo una sola udienza affrettata nella città di Minya, 250 chilometri a sud del Cairo. L’accusa più grave: aver ucciso un poliziotto negli scontri esplosi il 14 agosto, dopo la strage (quasi mille morti) compiuta dai militari e dalla polizia al Cairo contro il presidio pacifico della Fratellanza che protestava per la deposizione del presidente islamico Mohammad Morsi il 3 luglio. Solo 16 imputati sono stati prosciolti. Oggi andranno a giudizio altri 683 Fratelli, tra i quali il 70enne Mohammad Badie, Guida Suprema del movimento più importante nella storia dell’Islam politico, sorto a Ismailiya nel 1928 e da allora più o meno perseguitato, vincitore di tutte le prime elezioni democratiche dopo la Rivoluzione del 2011, poi ricacciato nell’ombra dal golpe del generale Abdel Fattah Al Sisi. Più che nell’ombra: da luglio centinaia dei suoi membri sono stati uccisi, 16 mila arrestati, i leader sono in cella o latitanti (come i due terzi dei condannati a morte di ieri, irreperibili). In dicembre il movimento è stato poi dichiarato «terrorista», un ulteriore segno della volontà dei generali di «terminare il lavoro» e liberarsi della sola forza di opposizione organizzata in Egitto, oggi come sotto Nasser, Sadat e Mubarak.
«Non si era mai visto un numero così grande di condanne a morte in un unico caso, in Egitto o altrove, e non è un’esecuzione di massa ma il verdetto di un tribunale civile», ha dichiarato l’esperto legale e attivista Karim Ennarah, definendo «ridicola» la sentenza per l’omicidio di un solo poliziotto imposta a più di 500 persone. I legali della difesa ritengono che la condanna sarà rivista in appello, troppo assurda e motivata da ragioni politiche, sostengono. Gli attivisti egiziani, le famiglie dei condannati disperate, le Ong umanitarie locali e internazionali chiedono che la sentenza sia annullata. «È grottesco, l’Egitto così balza ai primi posti per numero di condanne inflitte in un anno» ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui di Amnesty. Silenzio o quasi da parte dei governi occidentali, alle prese con la crisi ucraina, che ha già fatto passare in secondo piano emergenze gravissime come quelle siriana e libica. Da Washington, una portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato che gli Usa sono «scioccati», e «si appellano al governo del Cairo perché assicuri a tutti i detenuti procedimenti legali giusti e rispettosi delle libertà». Parole già sentite tante volte negli ultimi mesi che non hanno certo fermato, nemmeno rallentato, la restaurazione di Al Sisi, o controrivoluzione che sia.
Il generale prosegue infatti sulla sua strada senza cedimenti, sostenuto dallo «Stato profondo», ovvero quell’enorme insieme formato da apparati di sicurezza, esercito, burocrazia, ministeri, magistratura e soprattutto «felùl», i «resti» del vecchio regime che dagli anni 70 controllano l’economia. E non solo: con lui restano schierati i partiti laici deboli e divisi, tutti i media, e la maggioranza degli egiziani che nelle prossime elezioni, la data non è ancora fissata, lo eleggeranno presidente. La sua vittoria è ormai certa anche perché benedetta dagli alleati in Medio Oriente, a partire dalla potente Arabia Saudita a cui lo accomuna, tra le tante cose, la lotta contro Al Jazeera, l’emittente filo-Fratellanza del Qatar. Ieri al Cairo, mentre il blogger più noto Alaa Abdel Abdel Fattah usciva finalmente di cella in libertà provvisoria, il processo a 20 giornalisti del network (tra cui un australiano, due britannici e una olandese) è stato nuovamente aggiornato dopo mesi di carcere e, secondo i loro avvocati, di torture. La campagna internazionale per la loro liberazione non è servita a niente: i reporter sono accusati di sostegno alla Fratellanza.
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