sabato 8 marzo 2014

IL CALCIO SECONDO BENITEZ


Io ho diversi amici Napoletani su FB, e la maggior parte tifa ovviamente per il Napoli (ce ne sono anche diversi che tengono per la Signora, e tra le due parti scorre il "veleno" verbale...). 
Non so quanti di loro leggano il Corriere della Sera, quindi ho pensato di fare una cosa carina postando sul Blog l'intervista di Rafa Benitez che mi è parsa una piacevole chiacchierata, non banale, sul modo in cui si può intendere il calcio, la programmazione di una società, il modo personale di viverlo.
Belle le sue parole su Napoli.
Buona Lettura

Utopia Benitez «Non sono uno che vince
 e se ne va. Si può creare uno stile 
Napoli: la chiave è il tempo»
 
DAL NOSTRO INVIATO NAPOLI — In cerca dell’utopia, Rafael Benitez ha scelto la strada più difficile. La sua missione non é solo vincere ma cambiare un’idea di calcio che gli italiani hanno nel sangue. Ecco perché vale la pena seguirlo con attenzione, senza pregiudizi e, possibilmente, senza mettergli fretta. È una cosa che non sopporta.
«Quando firmo per una squadra penso che ci resterò 10 anni. Io non sono un allenatore che arriva, fa spendere 200 milioni, vince e se ne va. Io inseguo idee, progetti, obiettivi come il vivaio, il centro sportivo, il futuro del club, magari una Fondazione. Per questo serve tempo».
E cultura sportiva. Che, per esempio, non insegna a licenziare un tecnico e poi richiamarlo dopo un mese...
«È l’errore più grave: cambiare tanto per. Non puoi mettere in discussione tutto dopo ogni partita».
Al Liverpool è stato 6 anni, a Milano 6 mesi. Il meglio e il peggio. A Napoli come la vede?
«Il Napoli ha un’opportunità storica: non deve più essere un club che vince un titolo ogni 25 anni, ma piazzarsi nell’élite europea per i prossimi 25 anni. Magari non tutti con me... Quello però è il senso del viaggio intrapreso».
La Juve però è già molto avanti.
«Squadra da record, lo scudetto ovviamente è andato. Noi dobbiamo far diventare una costante le grandi partite con Dortmund, Arsenal e con la Roma in Coppa».
La continuità è proprio ciò che vi manca.
«Vero. Abbiamo perso tanti punti incredibili, con troppi errori difensivi. Ci stiamo lavorando».
Domani la Roma arriva al San Paolo con 6 punti in più (9 teorici) e 18 gol presi in meno. Ci stanno?
«Vedendo gli scontri diretti no, vedendo il campionato sì. Ma noi siamo una squadra offensiva e non snatureremo mai questa filosofia».
Ecco il famoso Benitez integralista.
«Ma perché dovremmo cambiare? Per far vedere che siamo intelligenti? Al Barcellona giocano col 4-3-3 fin dalla scuola calcio: così si crea un identità, un sistema solido in cui chiunque può inserirsi senza crisi di rigetto. Si potrebbe fare anche qui: uno stile Napoli. La chiave però è sempre quella: il tempo».
Hamsik è un caso?
«Il suo problema non è il ruolo in campo. Il punto è che, partito Cavani, deve assumersi più responsabilità, soprattutto quando mancano Higuain o Reina, i nostri leader. Le qualità le ha, sta lavorando bene. Si sbloccherà».
Ha detto che i giocatori contano più degli allenatori: ci crede davvero?
«Certo. Noi prepariamo le partite ma se gli altri cambiano in corsa io che faccio, entro e distribuisco ai miei un altro foglio di istruzioni? Ciò che serve è capire il calcio».
In che senso?
«Pensi a Jorginho. Si diceva potesse giocare solo basso in una mediana a tre. Invece arriva da noi e gioca subito benissimo anche a due. A 22 anni ha dimostrato di capire il calcio».
Quando parlava di allenatori con portafoglio da 200 milioni non pensava al suo vecchio nemico Mourinho, vero?
(sorride) «Per me ci sono tanti modi di arrivare al successo, ognuno legittimo. Il mio è quello di un professore di educazione fisica che pensa che la cosa più importante sia insegnare».
Voleva farlo anche all’Inter. Invece, dice lei, Moratti non ha mantenuto le promesse...
«È un fatto. Quando arrivai a Milano parlammo di tanti progetti di rinnovamento. Poi tutto saltò. Io con Branca e Ausilio lavoravo bene, ma sono scattati meccanismi interni su cui è meglio sorvolare. Mi spiace, perché c’erano le potenzialità per continuare a vincere».
Bastava darle i tre che voleva: Evra, Mascherano e Kuyt...
«Non ci penso più. L’Inter non è un nervo scoperto. Ne parlo solo perché me lo chiedete».
Curve chiuse, razzismo, stadi fatiscenti, polemiche continue: cosa pensa di questa serie A?
«È triste. In Inghilterra lo stadio è per le famiglie, contano fair-play e spettacolo. Ormai tutto il football va in quella direzione, non si può più restare indietro».
Lei nasce a Madrid da un papà dell’Atletico e una mamma del Real. Come viveva il derby?
«Era molto soft. La vera appassionata era mamma, che mi portava sempre al Bernabeu. Papà era colchonero per reazione al fatto che la maggioranza tifava Real».
E Benitez che calciatore era?
«Centrocampista davanti alla difesa, a volte libero. Idolo: Beckenbauer».
Vocazione al comando.
«Già. A 13 anni facevo le pagelle della mia squadra: voti, statistiche, gol. Non gliele leggevo, eh? Ma le ho ancora».
Sostiene che l’allenatore sia sempre un insoddisfatto.
«È così. E sa qual è la cosa peggiore? La famiglia lontana. Con mia moglie e le due bambine a Liverpool, tornare a casa dopo una sconfitta e trovarsi soli a rimuginare è brutto».
Tanto più che vive nell’eremo del Centro sportivo del Napoli, lontano dalla città.
«Scelta strategica. Con tre partite la settimana è più comodo per lavorare. Ma a Napoli vado spesso».
E che cosa trova?
«Tantissima bellezza, gente splendida e qualche contraddizione. La bellezza andrebbe valorizzata e sfruttata con marketing adeguato. Lo sa che non c’è uno dei miei giocatori che non sia innamorato di questa città? L’amore della gente non va sprecato».
La paragona spesso a Liverpool. Perché?
«Per l’orgoglio, quell’idea della lotta soli contro tutti. Si sentono capitali anche senza esserlo e vivono il calcio in maniera totalizzante».
Lei ha un debito con la scuola tecnica italiana.
«In passato ho seguito gli allenamenti di Sacchi, Ranieri, Capello. Esperienze fondamentali».
Oggi con chi si confronta?
«Spesso parlo col mio amico Del Bosque del “falso nueve” e di recente con Ancelotti della finale di Champions a Istanbul».
Sarà stato contento Ancelotti...
«Ma poi abbiamo parlato anche di Atene, quando ha vinto lui».
Quel Liverpool è stata la sua squadra più bella?
«No, è il Tenerife, serie B spagnola, 2000-2001: giocavo 4-4-2, il 4-2-3-1 è arrivato dopo».
Prandelli dopo il k.o. con la Spagna ha lanciato l’allarme sul calcio italiano. Lei che ne pensa?
«La Spagna ha i giocatori migliori e ne ha tanti. Chi ha più qualità vince e nei club la puoi comprare: i fatturati determinano i risultati».
Non è un facile alibi?
«No, è la fotografia della realtà. Difatti i campionati, dove contano le rose ampie, vanno sempre alle più forti e ricche. La Juve, per esempio. L’imprevedibilità, semmai, c’è nelle coppe».
Una volta ha detto che l’allenatore dice molto bugie. Perché?
«Non si può dire tutto. Non è bello, lo so, ma devi tutelare società e calciatori».
Quante bugie ha detto finora?
«Qualcosa ho omesso...».
Più sinceramente che può, dove sarà il Napoli a maggio?
«La Coppa Italia è possibile: siamo in finale. L’Europa League è complicata. Soprattutto, dobbiamo arrivare secondi e farci trovare pronti per la prossima stagione, con uomini e mentalità giuste. Il percorso è appena iniziato».
Quanto durerà?
«Vedremo. Io ho fiducia. Se poi l’anno prossimo a quest’ora saremo nelle stesse condizioni, allora sì che ci sarà da preoccuparsi».

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